
Trasportare la letteratura sulla scena è un’operazione affascinante, talvolta irresistibile ma sicuramente pericolosa. Perché ci sono romanzi che sembrano scritti per essere trasformati in sceneggiature e altri, la maggior parte, che non lo sono affatto. E la ragione di questo limite, se di limite si tratta, non risiede nell’impossibilità di condensare in un breve lasso di tempo una vasta materia o di gestire gli anni che passano e i luoghi che cambiano. La vera questione è che l’incanto di alcune opere letterarie è sotterraneo, è nella forza della scrittura che da sola riesce a tessere trame labirintiche e mondi che si muovono solo in profondità.
Privare la letteratura delle sue parole significa privarla di tutto.
Questo Stefano Massini lo sa. E nella sua riduzione per la scena de “La porta” di Magda Szabò – non solo uno dei romanzi più belli del secolo scorso, ma anche un testo che si realizza nel saper scavare nei meandri dell’interiorità – propone una versione da lui stesso definita “semi-scenica”. Dove il recitato viene in gran parte sostituito dalla vera e propria lettura di brani del romanzo, in alcuni casi presi in blocco, in altri ritagliati e ricuciti con cura e con l’obiettivo, non sempre raggiunto, di non snaturare un’opera di per sé perfetta.
Se quindi è vero che nessun momento saliente manca all’appello e che le principali fasi che sanciscono l’inizio e la fine del rapporto che le due protagoniste (padrona e domestica) faticosamente costruiscono sono evocate, è anche vero che della conflittualità che permea questo legame, e soprattutto del senso di colpa con cui la narratrice si tormenta per il sentirsi responsabile della morte della sua governante, non vi è traccia. O perlomeno, non ve ne è abbastanza.
Tratto da una vicenda autobiografica e frutto di una sorta di lavoro redentivo con cui la Szabò ha tentato di sgravarsi da un peso sulla coscienza e al tempo stesso di restituire il giusto valore all’esistenza, quasi mitologica, di Emerenc Szeredas, il romanzo ricostruisce il percorso, fatto di cesure ed avvicinamenti, compiuto dalle due donne protagoniste.
Da un lato Magda, agiata scrittrice, totalmente priva di senso pratico e dotata di una morale che lei stessa definisce come “frutto di una disciplina a cui il collegio, la scuola, la famiglia l’avevano costretta”; dall’altro Emerenc, portinaia, domestica “capace di lavorare con la forza di cinque persone”, votata al sacrificio ma capace di amare sinceramente, anche se a modo suo.
E’ Emerenc a stabilire i confini della loro relazione, a darsi e a sottrarsi con i tempi e i modi che lei stessa decide. Perché dalla vita, che le ha riservato dolori e perdite, ha imparato che “solo chi ti è vicino può farti male”. E per questo motivo la porta della sua casa è inesorabilmente sbarrata a chiunque.
Soltanto alla scrittrice permetterà un giorno di oltrepassarla, facendole giurare che non permetterà mai ad anima viva e per nessun motivo di fare altrettanto. Un patto che però la scrittrice non rispetterà quando consentirà alle forze dell’ordine di fare irruzione nell’abitazione della vecchia che, gravemente ammalata, vi si era barricata dentro. Nel tentativo di salvarla, Magda la consegnerà in questo modo alla morte.
Capolavoro di piccolezze, di resoconti di una quotidianità densa di dettagli, il romanzo viene riadattato da Massini tentando di lasciarne inalterata la semplicità attraverso una messa in scena scarna, presentata nell’ambito della rassegna Da vicino nessuno è normale organizzata dall’associazione Olinda nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, fino al 14 luglio.
Due sedie, due leggii e un telo bianco su cui vengono proiettati video amatoriali e note di regia sono gli unici elementi di cui si servono le due interpreti, giustissime nella loro parte. All’eleganza e leggerezza di Alvia Reale, in grado di accentuare quei tratti borghesi e tormentati di Magda, fa da spalla una potentissima Barbara Valmorin che, dura, fiera e dotata di un’ironia dissacrante, incarna un’Emerenc con quella voce e fattezze con cui per tanto tempo è vissuta nell’immaginario di ogni lettore.
Nonostante l’innegabile valore dell’interpretazione, l’impressione è tuttavia che le due attrici si trovino ad agire all’interno di un contenitore imperfetto, imprecisato, tanto che non appena abbandonano il porto sicuro del leggio sembrano perdere la padronanza della scena. Quasi come si stessero muovendo su un terreno che non hanno ancora imparato a dominare.
L’incertezza della composizione si percepisce anche negli inserti meta-teatrali delle installazioni video che, se da un lato assolvono alla funzione, necessaria, di dare un respiro alla storia – non a caso vengono proposte a cavallo tra una scena e l’altra – e di costituire un ponte temporale e narrativo, sostituendosi alla parola detta, dall’altro rimangono confuse, abbozzo di un’idea (talvolta originale, come nel caso delle riprese amatoriali con cui vengono “sorprese” le attrici durante le prove) che però, complessivamente, non spicca il volo.
Non mancano ad ogni modo trovate vincenti e d’effetto, come la scelta di introdurre il personaggio di Emerenc prima che varchi la scena attraverso l’immagine delle sue mani che lavano i panni in una tinozza di zinco, o l’ultimo gesto di Magda che si lascia scivolare dal pugno chiuso del borotalco: simbolo della polvere in cui si era tramutato il mobilio della casa di Emerenc dopo la sua morte.
“Si erano chiuse tutte le porte ora che quella era stata aperta”.
LA PORTA
dal romanzo di Magda Szabò
con: Barbara Valmorin e Alvia Reale
riduzione per la scena: Stefano Massini
produzione: TSI- La fabbrica dell’Attore
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 1′ 15”
Visto a Milano, TeatroLaCucina , il 3 luglio 2013