Uno di questi è La MaMa Spoleto Open 2013, coordinato da La MaMa Umbria International, che oltre ad essere un centro studi è anche residenza artistica: quest’anno ha ospitato la compagnia di Irina Brook per la preparazione della “Trilogie des iles”, di cui vi abbiamo raccontato “Tempête!“.
Nei giorni del festival La MaMa propone, negli spazi del Cantiere Oberdan, una selezione di proposte emergenti fra teatro, danza, musica e arti visive.
Abbiamo avuto l’opportunità di seguire la giovane compagnia Idiot Savant / Ludwig alle prese con “Il marito smarrito”, testo liberamente tratto dal “George Dandin” di Molière.
In scena ci sono Pier Paolo D’Alessandro, Matthieu Pastore, Martina Polla, Simone Tangolo, Anahì Traversi, per la regia di Filippo Renda.
La compagnia è nata dall’incontro di alcuni allievi della scuola del Piccolo di Milano: la stoffa si vede tutta, soprattutto nel rapido mestiere del trasformismo, nella vivacità dei lazzi, nel catalogo di mimiche facciali rigide e tirate. Basti citare l’emblematico lavoro fatto da Martina Polla sul suo personaggio, la suocera del protagonista Landini, sorta di burattino flaccido, sacco sgonfio aggrappato al braccio del marito e capace di un effimero gonfiarsi soltanto per reclamare la dignità morale della sua famiglia.
Al centro della commedia di Molière c’è proprio la convergenza piena di paradossi tra un’aristocrazia in decadenza economica ed etica, rappresentata in scena da Angelica e dai suoi genitori, e una borghesia in ascesa ma ancora in cerca di un’identità definita, come nel caso di Giorgio Dandini, che sposa Angelica per nobilitare il carisma del proprio lignaggio e che ottiene in cambio una poliedrica sfilza di tradimenti.
Il motore drammaturgico del testo sono le tradizionali dinamiche servo-padrone, gli scambi e i malintesi.
Renda, già assistente di registi importanti come Ronconi, Martinelli e Bruni, assiste la verve molièriana con un uso degli spazi fantasioso e calibrato: al centro un quadrato d’erba sintetica e una casetta di plastica per bambini, una sediolina e una staccionata (che serve anche a nascondere l’entrata degli attori nella casa), oltre a due quinte laterali: un ammiccamento parodico ad una distribuzione scenografica tradizionalissima, di cui si mettono in ridicolo le ambizioni prospettiche.
La recitazione è giocata tutta sull’esagerazione, che andrebbe forse dosata meglio per essere ancor più efficace. L’unico personaggio a tutto sesto e capace di escursioni di registro è l’Angelica della Traversi; i genitori, i servi e lo stesso Giorgio rimangono macchiette al servizio dell’ironia sociale. In Angelica l’arte retorica aristocratica, capziosa e tracotante, si fa beffe dell’insipienza del marito, costretto a parlare di sé in terza persona, come se ripetendo il proprio nome potesse convincersi della propria identità, mentre cerca inutilmente di smascherare i raggiri della moglie.
Siamo senz’altro di fronte ad una compagnia che ha gli strumenti per produrre ottimi lavori; colpisce in particolare la fiducia di questi ragazzi in una sorta di sana artigianalità, che non nasconde ma nemmeno ostenta i ferri del mestiere teatrale, rinunciando a certi facili ammiccamenti formali con cui spesso le giovani compagnie sentono il bisogno di rivendicare la propria dignità nei primi spettacoli.
Per costruire qualcosa di più solido di una casetta di plastica per bambini, certo, bisogna ancora lavorare.
Peter Stein sostiene che nel suo approccio ai classici l’impegno sta il più possibile nel «capire l’impatto che il testo ha avuto nel momento in cui è stato scritto, cercando di trasferire questo in una condizione totalmente diversa che è la nostra».
Da questo punto di vista non bastano gli intermezzi a base di scenette pop (balletti o canti in playback), che collocano lo spettacolo in un’Italia su per giù fra i Sessanta e i Settanta, e che ormai cominciano ad essere fin troppo inflazionati sui nostri palcoscenici; e anche il «fighetta» di vago sapore padano con cui Giorgio apostrofa il suo rivale amoroso è troppo poco per attualizzare il personaggio.
Da mettere ancora a punto c’è pure qualche scelta registica: oltre ad un paio di uscite degli attori non abbastanza fluide nel corso della messa in scena, penso soprattutto al finale, quando è costretto per la seconda volta a chiedere ufficialmente scusa ad Angelica; la chiusura andrebbe preparata meglio, per dare ulteriore forza alla specularità rispetto alla scena precedente e ai risvolti di un equilibrio che, sebbene salvato in extremis, serve a Molière per dipingere con amarezza lo sfibramento delle convenzioni sociali tradizionali.