Divine di Danio Manfredini, lo sguardo di Genet sulla Parigi bohémien

Disegno di Danio Manfredini
Disegno di Danio Manfredini

Parole e disegni traducono il romanzo “Nostra signora dei fiori” in uno storyboard immaginifico, tra omicidi e prostituzione

Solo i poeti sanno rovistare nel fango ed estrarne perle di rara lucentezza. Lo scrittore parigino Jean Genet (1910-1986) ha percorso il Novecento riversando nelle sue opere l’intreccio inestricabile di vita e arte, ai margini della perversione.
Rifiutato dalla madre, Genet non conobbe mai il padre. Adottato ed educato secondo i canoni borghesi, egli commise da bambino i primi furti, sperimentando l’ostracismo anche della nuova famiglia. Affascinato da ambienti e personaggi borderline, assecondò i primi turbamenti omosessuali. Frequentò gli ambienti della prostituzione. Conobbe il crimine, gli assassini e il carcere.
La scrittura gli serviva per attraversare i labirinti della colpa e delle ossessioni. Con la poesia, Genet colmava il vuoto che lo arrovellava, e sopiva inquietudini e dolore.

Anche “Nostra signora dei fiori” (1944) è un’opera che rivela l’infanzia di Genet e ne ridesta i fantasmi.
In un penitenziario in Francia sotto l’occupazione tedesca, il detenuto Jean Genet appende al muro della sua cella foto di criminali ritagliate dal giornale. Di notte, immagina per loro una vita diversa. Così prendono forma Divine, travestita e prostituta, Mignon, suo magnaccia e amante, e Notre-Dame-des-Fleurs, un’adolescente assassina.

“Divine”, da pronunciare rigorosamente alla francese, è il monologo prodotto da La Corte Ospitale che Danio Manfredini ha riportato in scena al TeCa (Teatro Cassanese) dopo il debutto del 2019 e la pausa dovuta al Covid.
E Divine è lo pseudonimo di Louis Culafroy, ragazzino fuggito da casa per arrivare a Parigi e lì vivere la propria vita da travestito.

Manfredini iniziò a buttar giù un canovaccio alla fine degli anni Novanta, avendo in mente la sceneggiatura per un film. «Invece diventò parte dello spettacolo teatrale “Cinema Cielo” del 2003. Questa sera leggerò il canovaccio della sceneggiatura accompagnato dai disegni che feci allora». È lo stesso Manfredini a illustrare l’alchimia dello spettacolo: il connubio d’immagini e parole lette di spalle da un leggio, da un recesso del palcoscenico.

Manfredini può fare teatro come vuole. Stavolta si affida alla voce, che fa da didascalia ai suoi disegni. Sono schizzi con tecnica mista, pennarello, carboncino, matita, acquarello. Un mondo onirico e perverso in bianco e nero. I colori sono quasi banditi. Un mondo accennato, incompiuto, di strade e croci, di occhi come chiazze, di sguardi lividi, di sgorbi e scarabocchi. Paesaggi tumefatti, locali fumosi e sfatti da cui è bandita la spensieratezza e la malinconia deforma i sorrisi in smorfie.

Solitudine, violenza. Sesso, soldi, sangue. La tisi e la cocaina. I marciapiedi e il carcere. Le panchine e i vespasiani. Le mansarde e i letti in disordine. Preghiera e abiezione. Fuga, delirio e perdono. I cimiteri e gli sguardi eclissati. Corpi svestiti che si cercano, e un senso di disfacimento che l’amore non riesce mai a rimodellare del tutto.
Manfredini celebra il potere dell’immaginazione e del desiderio, capaci di restituire la libertà, trasformando il suo de profundis in un canto d’amore rivolto a transessuali, ladri e assassini.

Dissoluzione e anestesia sono anche nella colonna sonora dello spettacolo, da “Stan” (Eminem con Dido) a “Confortably numb” dei Pink Floyd, passando per Bach e Jimmy Somerville.
Qualche centinaio di disegni. Una dozzina di voci: aspre, sottili, stridule, cavernose, opache, languide, tenebrose, roche. Eroi tragici. Storie d’amore straziate. Crimini terribili e destini disastrosi. Giovani esclusi in cerca d’appartenenza. O di tenerezza.

Questa storia colpisce per il suo avanguardismo: parlare di ambienti queer, ancor prima dell’invenzione del termine, era azzardato in un momento in cui, in Francia, l’omosessualità era considerata un reato. Nonostante tutto, Genet dipinge un ritratto senza censura dei suoi personaggi, del mondo delle “zie” di Montmartre: travestiti, omosessuali, prostitute e altre persone socialmente escluse. Sono imperfetti, torturati a volte da emozioni traboccanti, ma sono descritti come santi: è la loro fragilità che è celestiale.

Manfredini ci guida nell’intimità di queste vite notturne e clandestine, fuori dal tempo, rivelando ciò che non è solo intuito o fantasticato. Il proibito, il pericoloso, il perverso, tutto questo è trattato in un modo innocuo, familiare. Il che, lungi dal disinnescarne il potere, esercita un fascino ancora più forte, quasi ipnotizzante.

Assistere a questa rielaborazione può essere una sfida. Non ci sono interruzioni, e il confine tra le diverse storie è vago. Ci troviamo di fronte a un testo denso, a volte opaco. Se accettiamo di prestarci al gioco, però, arriviamo ad apprezzare la scrittura di Genet e la riscrittura di Manfredini trasfigurata dalle immagini. “Divine” contribuisce alla costruzione di una nuova memoria, per dare un posto nella comunità dei vivi ai reietti della storia, ai morti senza nome.

DIVINE
liberamente ispirato al romanzo di Jean Genet Nostra Signora dei Fiori
spettacolo di Danio Manfredini
disegni di Danio Manfredini
produzione La Corte Ospitale

durata: 1h
applausi del pubblico: 1’40”

Visto a TeCa, Cassano d’Adda, il 1° aprile 2023

 

 

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