Usine Baug e Fratelli Maniglio portano in scena il romanzo di Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò
“Basta morti”, “L’acciaio o la vita, devi scegliere”, “La salute è tutto”, “+ parchi – minerali”. Queste citate sono alcune delle scritte sparse su muriccioli e pareti tra la campagna e la città nella zona attorno all’Ilva di Taranto, la fabbrica più inquinata d’Europa. Le vediamo scorrere come istantanee su uno schermo televisivo a lato del palcoscenico.
Siamo a Milano, Campo Teatrale. Qui la compagnia Usine Baug incontra i Fratelli Maniglio per mettere in scena in prima nazionale lo spettacolo “Ilva Football Club”, tratto dal romanzo omonimo dei giornalisti Fulvio Colucci e Lorenzo D’Alò (Kurumuny Editore 2016).
Prodotta dallo stesso Campo Teatrale, “Ilva Football Club” è la storia di una squadra di calcio nata tra i cementi di u stabiliment, come gli abitanti di Taranto chiamano la fabbrica, la più grande acciaieria d’Europa, il mostro dalle budella metalliche. Le sue ciminiere sputano fuoco, minerali e benzopirene, e ammorbano da sessant’anni il cielo intorno al quartiere Tamburi.
Cinque personaggi in scena. Sono Manfredi Messana, Andrea Perotti, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco e Claudia Russo.
Emanuele Cavalcanti (a luci e tecnica) disegna atmosfere plumbee e intime come contorni per storie sofferte. Sul palco non c’è mai una luminosità diffusa. Bagliori freddi e bluastri incorniciano i protagonisti dentro un dolore onirico. È una denuncia cruda, trasfigurata da momenti di teatro fisico, video e immagini mute.
Usine Baug incontra i gemelli Maniglio, una coppia di stanza a Parigi dal linguaggio visuale, sospeso tra cinema, opera, circo e teatro. Ne nasce un lavoro utopico eppure agganciato alla storia, usata non come rifugio nostalgico, bensì come strumento d’indagine antropologica.
Siamo nel solco di “Topi”, lavoro del 2021 di Usine Baug che si occupava delle violenze durante il G8 di Genova, denunciando una delle pagine più vergognose della Seconda Repubblica.
I protagonisti di “Ilva Football Club” sono giovani come i manifestanti bastonati durante il G8. Desiderano un Sud sviluppato capace di frenare l’emorragia migratoria. Sognano una famiglia, un figlio, una vita normale.
Nel 1961, quando venne fondata, questo era l’Ilva: la promessa di un futuro migliore; il riscatto di un Sud che non tradisce i suoi figli. E invece l’Ilva ha tradito: la più alta concentrazione di diossina d’Europa; la ruggine che si deposita nei polmoni degli adulti, che sporca il sangue dei figli, che inquina la terra, il mare, il futuro; che semina malattia e morte.
Miasmi spettrali rovesciati sulla città. Quel misto di arroganza e bugie che intendeva far credere agli sprovveduti operai e abitanti del quartiere Tamburi, attiguo all’industria, che il veleno immunizzasse le viscere proprio nell’atto in cui, gradualmente, vi penetrava.
Scena prima, luci assopite. In “Ilva Football Club” gli attori sono davanti, dietro, in mezzo a noi. Dilagano tra palco e platea, come l’aria avvelenata della fabbrica.
Regia condivisa. Drammaturgia diffusa. Narrazione a più voci. Momenti di performance corale che catturano lo spettatore, insieme alla seduzione del racconto.
La narrazione si sviluppa su due piani; da una parte la fabbrica, la sua epopea negli anni del boom; dall’altra la leggenda di una squadra di calcio fantasmagorica. Era composta da operai in divisa grigia, con la chimera di diventare campioni.
Porte realizzate con tubi d’acciaio, con reti rubate ai pescatori. E cicche di sigarette a fare da contorno al campo di gioco. Una squadra che in un tempo mitologico arrivò a disputare la finale di Coppa Italia nazionale.
La cronaca di un misfatto, quella dell’Ilva. E la narrazione tra fantasia e utopia dell’epopea di una società dilettantistica che arriva ad affrontare gli squadroni del Nord. La forza di tradurre in realtà il più velleitario dei desideri. O forse no. Forse quella dell’Ilva calcio è solo una matassa d’illusioni. Forse è il delirio di un pazzo. O più probabilmente, una bella fiaba per cullare un figlio malato, sfinito, dentro un letto d’ospedale.
Calciatori come i manga televisivi giapponesi degli anni Ottanta. Corse sul posto. Piroette con palloni fatati. E poi c’è quel vortice d’aria, creato da cinque ventilatori. E drappi dorati ignifughi, a formare fiamme e bandiere.
Fuliggine e cenere. Straccetti di sacchi neri. Una pioggia sinistra di coriandoli bituminosi. Cronaca e magia. La morte si stempera nell’onirico.
Astronave Ilva. Ilva-Jeeg robot cuore d’acciaio. Ilva bomba atomica, giraffa di cemento, fungo cancerogeno. Ilva gigante di fuoco, sudore e sterco.
Un lavoro che parte da un libro e diventa inchiesta. Infine, diventa accusa, che inchioda politici e amministratori. Con il valore aggiunto di una residenza artistica proprio nel quartiere Tamburi, a Teatro Tatà.
Per l’automobilista che arriva a Taranto da Matera oppure dalla Calabria, l’impatto con le ciminiere dello stabiliment è inevitabile. Allo svincolo per Brindisi si incontra l’indicazione per il camposanto. Sarcasmo noir: sul cartello qualcuno ha aggiunto il nome della fabbrica maledetta. Lentamente, il tempo sta cancellando la scritta “Cimitero Ilva”. Così sbiadisce la favola iniziata sessant’anni fa. Resta l’algore di uno scenario grigio e desolato.
La cronaca degli ultimi giorni alimenta le preoccupazioni. Il governo Meloni non ha ancora incontrato gli operai. Che paventano trattative segrete per delegare a nuovi soggetti privati il futuro dell’Ilva. Oppure temono uno stallo che cristallizzi la crisi. La produzione è in caduta libera. I salari si abbassano. Diminuiscono gli investimenti non solo per la bonifica e la decarbonizzazione, ma anche per la manutenzione, così da aumentare non solo le incertezze sulla salute dei tarantini, ma anche la sicurezza stessa degli operai nei luoghi di lavoro. I sindacati sono in subbuglio. I lavoratori stanno programmando scioperi e sit-in.
Vite come sogni sfatti. Luci blandamente stroboscopiche. Danze irreali. “O il lavoro o la vita”. I fabbricanti di morte hanno scelto il profitto. Usine Baug e i Fratelli Maniglio scelgono la denuncia. Tuttavia non rinunciano alla metafora. Perché solo attraverso la poesia la tragedia raggiunge l’anima. E si prepara alla catarsi.
ILVA FOOTBALL CLUB
Regia collettiva Usine Baug e Fratelli Maniglio
Con: Manfredi Messana, Andrea Perotti, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco, Claudia Russo
Luci e Tecnica: Emanule Cavalcanti
Scenografia: Arcangela Varlotta
Costumi: Maria Martinese, Francesca Biffi
Assistenza alla ricerca documentaristica: Pietro Pingitore
Una produzione di Campo Teatrale Con il supporto di IDRA Teatro, Brescia e TRAC – Centro di residenza pugliese nell’ambito del progetto CURA 2022
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Campo Teatrale, il 14 ottobre 2023
Prima nazionale