Intervista su teatro e disabilità alla compagnia Berardi-Casolari, a vent’anni dalla fondazione
«La prima reazione di tutti davanti a una persona disabile è sempre quella di bloccarsi un attimo, ma è una sensazione che passa subito, non appena inizi ad averci a che fare e a lavorarci insieme. Penso che in questo l’arte […] aiuti molto. Dopo un po’ la disabilità, quindi questa differenza, scompare, non la vedi più, non la senti più, non l’avverti più. Senti soltanto l’energia, l’anima della persona che hai di fianco».
Gianfranco Berardi, le parole che ho riportato sono di Gabriella Casolari, tua socia e collaboratrice nella compagnia che avete fondato vent’anni fa. Nei vostri spettacoli si mescolano tragedia e comicità, vissuti autobiografici e racconti archetipici. Che cos’è per voi la disabilità a teatro?
Risponderò a tutte le domande in maniera plurale, perché il nostro lavoro è un lavoro di squadra, fondato sull’incontro/confronto fra me e Gabriella Casolari, ma più in generale credo che quando si parla di lavoro artistico si debba sempre considerare il lavoro di squadra, soprattutto in ambito di disabilità. È doveroso e onesto parlare sempre al plurale, perché senza il sostegno di un complice, un artista – specialmente se disabile – non potrebbe far niente. Premetto anche che noi ci occupiamo di disabilità in quanto condizione esistenziale di appartenenza, essendo il nostro lavoro autoriale, oltre che attoriale. E prendendo spunto nella maggior parte dei casi dal nostro vissuto autobiografico, la cecità è un tema centrale della nostra poetica. È una necessità, prima ancora che una scelta. Sono un attore, disabile, che fa teatro, non faccio teatro perché sono disabile. La questione del “grazie a” o “nonostante la” disabilità è sempre viva in me/noi: faccio teatro grazie alla cecità o nonostante essa?
Ci sono temi più frequenti nella poetica di un artista con disabilità?
Non sappiamo rispondere in maniera generica su quali siano le tematiche affrontate nel lavoro con disabili, perché non frequentiamo quest’ambito come fosse un settore particolare del teatro e speriamo vivamente che non lo diventi.
La nostra esperienza ci dice che le persone con disabilità (per lo più cieche e ipovedenti), potendo scegliere, molto spesso preferiscono non parlare di sé e del proprio vissuto, ma piuttosto cercare di mettere in scena opere o testi appartenenti al mondo dei cosiddetti “normodotati”.
Diremmo quindi che la tendenza nei lavoratori integrati con persone con disabilità, sia quella di uscire dalla propria quotidianità, attraversare altre vite, con una spiccata predilezione verso tutto ciò che li avvicini ad una condizione di “normalità”. Il teatro è visto quindi come terra di uguaglianza.
In uno dei vostri spettacoli cult, “I figli della frettolosa”, tu, Berardi, ti offri come guida a uno spettatore bendato. Anche questa è una soluzione – magari pirandelliana – che punta a una condizione di uguaglianza?
Quando iniziammo l’esperienza de “I figli della frettolosa”, con un gruppo composto da persone cieche e ipovedenti, la cosa che ci colpì maggiormente fu il loro desiderio di lavorare proprio su Pirandello. Questo costituiva un problema per noi, che avevamo intenzione di lavorare su un’opera originale, con l’idea di partire dal vissuto biografico per trasformarlo in metafora di una condizione universale. Soltanto dopo un percorso di mesi, siamo riusciti a costruire un’opera in cui i partecipanti ciechi e ipovedenti hanno accettato di parlare di sé, della propria situazione, quale stimolo e provocazione forte per lo spettatore, trasformando così la cecità nella metafora di un’umanità accecata e smarrita.
Le tematiche affrontate quindi dipendono, come sempre, al di là della disabilità, dalla necessità di chi lancia l’indagine, e dalla motivazione del gruppo che ci lavora.
Notiamo con gioia che nel lavoro con la disabilità, così come, del resto in tutto il panorama della drammaturgia contemporanea, la tendenza è sempre più quella di muovere verso una “realizzazione” scenica più che verso una “rappresentazione”: la contaminazione degli stili e delle discipline, dal punto di vista formale, e la pulsione verso la verità sostanziale sono sempre più al centro dell’opera.
La pratica teatrale di chi lavora in termini di inclusione e integrazione si vale sempre più di un’autenticità espressiva di cui a volte anche il teatro dis-integrato avrebbe bisogno.
Ciò che però rischia di diventare pericoloso, a nostro avviso, è il rischio di ghettizzazione e, ancor peggio, di autoghettizzazione. Il lavoro teatrale è indispensabile per la vita delle comunità, perché crea, fortifica, ravviva le relazioni fra individui, comunque essi siano. Per questo pratiche e tendenze che differenziano, il più delle volte esaltandolo, il lavoro con la disabilità, pur al netto della qualità del lavoro, rischiano di diventare pericolose.
Quali sono le difficoltà che affrontate nella vostra pratica?
La disabilità è un argomento che ha bisogno di più tempo e di più attenzione, in quanto le persone che ne fanno parte hanno tempi e modi diversi di partecipare alle operazioni. Ma allo stesso tempo, quale processo creativo non ha bisogno di tempo e di cura?
Quale percorso artistico o quale artista non può essere considerato fragile? La vita, anche per i teatranti normodotati, occidentali, over 35, è un inferno! Certamente sono maggiori le difficoltà fisiche, tecnico logistiche e, a volte, di apprendimento, che noi artisti con disabilità dobbiamo affrontare, e questo credo sia evidente, ma allo stesso tempo questa condizione dovrebbe semplicemente meritare pazienza, forse rispetto, e, ove necessario, un sostegno che ci permetta di poter arrivare allo stesso punto di partenza di un artista senza disabilità. Il resto dovrebbero farlo il talento e il sacrificio, niente più e niente meno, perché così è anche per i normodotati, altrimenti di che cosa parliamo?
Esiste un valore aggiunto nel vostro teatro?
Aborriamo qualunque discorso che inneggi al plusvalore dell’artista disabile, che rischia solo di amplificare l’effetto contrario, ovvero quello di farci passare per dei “poverini”, e tanto meno sposiamo le dichiarazioni di chi rifiuta la “specialità” della condizione. Lo sguardo curioso e amorevole con cui un certo tipo di lavoro, inevitabilmente, è visto ancora oggi e non so per quanto altro tempo, è qualcosa che farebbe molto bene anche al teatro disintegrato. È fondamentale, però, continuare a lavorare perché quel ricatto emozionale, che inevitabilmente aleggia nel pubblico che sa di avere di fronte a sé un artista disabile, diventi sempre più debole. E perché questo accada serve tempo, continuità e determinazione nell’azione di divulgazione. La strada è tracciata, i risultati arriveranno. Dall’altra parte, però, serve inequivocabilmente che noi artisti disabili, o chi con noi lavora, siamo il più onesti possibile, evitando alibi di sorta, discorsi che rimarcano territori o qualsivoglia rivendicazione. Non serve individuare un nemico per crearsi un’identità. Il rischio è che scatti una vera e propria creazione delle quote H, dove le attività dei disabili siano inserite in fasce protette più che agevolate.
Quindi le associazioni che riuniscono artisti con disabilità e ne rivendicano i diritti, vanno paradossalmente a creare dei recinti?
Crediamo fondamentalmente che il grosso problema da scardinare sia il buonismo e il pietismo con cui certe relazioni e certi discorsi sono affrontati, sia dai normodotati, sia da noi disabili quando la cosa ci fa comodo. Dobbiamo fare attenzione a non trasformare esigenze personali in manifesti ideologici. La nostra società, sia pur con mille contraddizioni, problemi e storture, non fa altro che parlare continuamente di inclusione, coesione sociale, accessibilità e integrazione. Ma se vogliamo che questa non sia o non rimanga solo propaganda, bisogna lavorare, uniti tutti insieme. Continuando un percorso di emancipazione, di educazione e di crescita individuale e collettiva. Ricalcando le orme che qualcuno ha tracciato prima di noi, legalmente, artisticamente ed umanamente. Perché è grazie a questo sforzo che oggi si può parlare di un certo tipo di teatro in un certo tipo di società.
Voi spesso proponete la disabilità in termini provocatori.
Il presidente di una sede dell’Unione Italiana Ciechi, alla fine di un nostro spettacolo che cominciava con una canzone rap, da me cantata, dal titolo “Cieco di merda” – canzone che aveva mandato in panico i direttori dei teatri – ci disse: «Vi ringrazio per aver cantato in questo modo la nostra condizione; quando io ero piccolo, e sono qualche anno più grande di voi, a me per strada gridavano cieco di merda!».
Oggi questo accade ancora, ma meno di frequente. Forse anche grazie al teatro.
Ma bisogna fare molta attenzione a non confondere il lavoro con la lotta, peraltro necessaria, per costruire sempre più armonici territori d’incontro e di conoscenza fra le fasce sociali. Perché in fin dei conti “Nessuno si salva da solo”.