Tiresias e Giorgina Pi: danzeremo ancora insieme per cambiare il mondo

Tiresias (photo: Claudia Paiewsky)
Tiresias (photo: Claudia Paiewsky)

… just to see what we can bear.
Exhausting being fear-struck;
howling, weak-willed.
Much nicer to be bathing in the glare

of all that we have built to shine and
soothe us
what use are eyes at all in times like
this?
(Kae Tempest)

La prima riflessione che emerge dopo aver visto a teatro “Tiresias” può essere sintetizzata con una paradigmatica dicotomia, la coesistenza di due caratteristiche peculiari dei tempi moderni. Da un lato la tecnologia con i suoi linguaggi settoriali e, dall’altro, un indicatore culturale come il Poetry Slam. Tradotta in italiano come poesia performativa, essa è un’espressione contemporanea che amalgama la performance con il testo. La parola viene contestualizzata, riadattata, modernizzata. Lo Slam, tra le forme artistiche contemporanee, è quella più coerente, con un cuore pulsante, e dimostra quanto sia ancora indispensabile la poesia nella società, per la sua forte corrispondenza con i contesti antropologici del terzo millennio.
Come ha affermato Marc Smith, il poeta americano che nel 1987 a Chicago ‘inventò’ il Poetry Slam, «La poesia non è fatta per glorificare il poeta, essa esiste per celebrare la comunità; il punto dello slam non sono i punti, il punto è la poesia».

Kae TempestLeone d’Argento alla prima Biennale Teatro diretta quest’anno da Ricci/Forte – è senz’altro Slam: c’è l’arte poetica in presa diretta nel suo sguardo, in tutto ciò che ha vissuto, nelle sue parole.
Con un post sul suo profilo Instagram, nell’agosto del 2020, la musicista e poetessa londinese prima conosciuta come Kate Tempest ha annunciato di aver cambiato nome, dichiarandosi gender neutral: « […] Da oggi pubblicherò i miei libri e la mia musica come Kae Tempest! Si pronuncia come la lettera K. È un’antica parola inglese che significa ghiandaia. Le ghiandaie sono associate alla comunicazione, alla curiosità, all’adattamento a nuove situazioni e al CORAGGIO […] Può significare anche taccola, che è l’uccello simbolo della morte e della rinascita. Ovidio diceva che la taccola portava la pioggia. Che io amo. Affonda le sue radici nella parola latina che significa rallegrarsi, essere felici e provare piacere […]».

Citare le parole di Tempest permette di entrare in sintonia e di mettere a fuoco l’impianto di “Tiresias”, una produzione Angelo Mai/Bluemotion per la regia di Giorgina Pi, con una drammaturgia in cui convivono assalti verbali, incursioni letterarie e flussi di pensiero.
“Tiresias” trae origine da “Hold your Own” (Resta te stessa) di Tempest, la cui prima pubblicazione risale al 2014, mentre la traduzione è di Riccardo Duranti.
Anche Giorgina Pi è Slam, così come Gabriele Portoghese, in scena con il suo carisma interpretativo e il suo magnetismo fisico.

Il dispositivo che viene proposto sul palco è solo in apparenza semplice: c’è la consolle da dj, ci sono i dischi in vinile, c’è una chitarra elettrica. Tutto comincia e si connette quando si accendono i fari, posti a terra, in forma circolare.
Un cerchio di luce calda e refrattaria disegna una gabbia, una stanza, un planisfero o un ring. L’uso di linguaggi interdipendenti genera onde sonore, forme fisiche, immagini plastiche in uno spazio tridimensionale. L’hic et nunc digitale ricorda a tutti noi che ci sono possibilità di vita fuori dal “grande utero” del passato. Che dal fuoco dell’antica Grecia si può avanzare fino allo sfarfallio ultravioletto della modernità, fino ai paesaggi artificiali disegnati da una mappa di pixel, bit e byte. Festeggiare i primi trecentomila followers, superare per la prima volta i cento “like” o un numero alto di condivisioni con una storia, una foto, un post, può essere come un rito collettivo di iniziazione, un debutto nella società.
Avere la possibilità di vivere il proprio tempo significa agire concretamente per ripensarlo, entrare dentro i suoi battiti, fuori dai luoghi comuni e dall’egemonia del passato.
Una storia personale, l’inversione di marcia di una vita, è qualcosa che potremmo vagamente chiamare rivoluzione? Uscire dalle sabbie mobili di storie già vissute, ritrovarsi in un’identità più funzionale, progettare e abitare uno stato di indipendenza: cosa significa tutto questo in un’ottica rivoluzionaria?

Tiresia è al di fuori dell’ordine naturale, è l’indovino che ha incarnato l’identità maschile e femminile includendole in sé, ed è stato punito da Era con la cecità per aver rivelato che, nell’atto sessuale, la donna gode di più dell’uomo. Nel dire questa verità è stato tra i primi a non lasciarsi sottomettere da un’autorità religiosa, tra i primi a coniugare l’animus con l’anima, a rappresentare una irrequieta schiera di voci che urlano le proprie differenze di età, di genere, di esperienze. E “con le sue vizze mammelle vive in mezzo alle piccole cose”.
L’urlo finale arriva, le parole incitano alla comprensione e al rispetto, muovono i cuori e accendono le menti, sono incisive. Sulla maglia di Tiresia/Gabriele Portoghese c’è scritto in greco χορεύσομεν, danzeremo. Dove danzeremo domani, tra un anno, in un’altra vita?
Ne abbiamo parlato con Giorgina Pi.

Dopo il Teatro India a Roma, in questi giorni le repliche sono all’Elfo Puccini di Milano. Quali sono le emozioni, i momenti più inaspettati e intensi che state vivendo?
Qui a Milano abbiamo trovato una vera comunità di amici con i quali condividiamo pezzi di vita da anni, persone del cuore che fanno parte del collettivo dell’Angelo Mai. Questo nostro andare nelle città significa condividere incontri con persone con cui si è costruita la propria vita, il proprio percorso artistico e politico. Penso anche a quello che è successo qualche settimana fa a Bologna, quando abbiamo fatto “Tiresias” a sostegno del MIT, Movimento Identità Trans. Bologna è come Milano, una città fitta di relazioni antiche e ancora salde. Questo poter girare con “Tiresias” e rimettere insieme pezzi che da anni costruiscono la nostra poetica è bellissimo, sentirsi nomadi e pieni di case amate.
Penso anche a quando siamo stati, nel mese di maggio, a Ravenna al Teatro Rasi, al Teatro Delle Albe, tanti fili del cuore. A Santarcangelo o, prima ancora di essere qui all’Elfo, all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini per “Da vicino nessuno è normale”. È come se fosse un viaggio itinerante per incontrare persone sconosciute che forse non si conosceranno mai. Sempre accolte da pezzi di noi. Il nostro essere creature che appartengono un po’ al mondo.

Cosa rappresenta la scrittura di Kae Tempest? Cosa ha lasciato in te e cosa pensi di lasciare di te attraverso “Tiresias”?
In Tempest trovo dei nodi che appartengono profondamente alla mia pratica di essere umano innanzitutto e, dunque, inevitabilmente alla mia pratica artistica. Ogni singolo verso che leggo riesce a rievocarmi i fili conduttori che sono la poesia, intesa come poesia incarnata, dunque come Teatro, come atto pubblico, in cui c’è la volontà di rendere la parola poetica accessibile a tante più persone possibile.
In questo atto pubblico incarnato c’è la musica, che per me è sempre linfa vitale e primordiale di ascolto del mondo, e poi c’è la riscrittura del mito permeata di pensiero junghiano, in qualche modo, che per me è un’altra cosa importante per ritornare verso sé stessi, per lavorare sugli archetipi che ancora risuonano e per sentirci, citando Tempest, “sempre antichi, nuovi di zecca”.

La “cecità” di Tiresia – che non è un deficit sensoriale e nemmeno l’incapacità di vedere le cose, le persone così come sono – può essere la metafora di un “oppio visivo” nel quale, più o meno tutti, ci ritroviamo? A che servono gli occhi?
Gli occhi battono nel cuore, e con questo intendo dire che la questione dello sguardo, che senz’altro è importante, è in relazione con il saper vedere e non semplicemente con un organo visivo. Per saper vedere ci vuole molta saggezza, molto ascolto del mondo e molto desiderio di non fermarsi alle apparenze, conoscersi, sentire pulsare delle questioni umane non scontate. Ci vuole molto coraggio; bisogna lanciare sempre il cuore oltre l’ostacolo, considerando quest’ultimo soprattutto una possibilità importante di crescita. Tiresia, dunque, da questo punto di vista, in tutte le sue vite, rappresenta forse proprio questo: la decisione di non avere paura, di non farsi condizionare da come il mondo vede le cose. Non c’è nessun mondo a vedere le cose, siamo noi per primi a generare il mondo.

Che rapporto hai con la parola ribellione? L’assenza di rivoluzione, su larga scala, porta solo miseria?
La parola ribellione è stupenda se è concreta, se non è astratta. Significa portare avanti ogni giorno, in maniera manifesta, la propria vita attraverso dei principi etici, attraverso la capacità di farsi, il più possibile, modello di un’etica. Ribellione vuol dire non accettare ogni minima ingiustizia che si incontra, la mancanza di rispetto dei tanti Tiresias, intorno a noi, che spesso vengono colpiti e noi dobbiamo difenderli il più possibile. Ribellione significa non vivere mai nell’ottica del privilegio.
Se tanti atteggiamenti ribelli di questo tipo riusciranno a coordinarsi, forse, anche in questo emisfero del pianeta, saremo in grado di fare una rivoluzione. Il nostro è forse un momento storico in cui delle piccole rivoluzioni in atto possono già cambiare qualche cosa. Io sono molto fiduciosa che nell’altro emisfero possa succedere qualcosa di importante che ci faccia ragionare sul fatto che il nostro mondo occidentale non è tutto il mondo. Fondamentale per me è vivere, praticare, abitare, esperire modelli di convivenza diversi da quelli legati classicamente alla famiglia, al modello dell’eteronormatività, all’obbligo di fare figli, all’obbligo per un uomo e una donna di stare insieme, all’obbligo di convivere solo in due. Dentro le città, non dico in luoghi isolati, è fondamentale creare delle comunità solidali, che applichino e siano anche modello di un senso di pratiche di vita non patriarcali, non proprietarie. Un grande problema della società e dei nostri tempi è la confusione tra dimensione privata e dimensione privatistica, che è tutt’altra cosa.

“Tiresias” è stato definito uno spettacolo con un “impianto antinaturalista”. Quanto ti ritrovi in questa definizione?
Bisognerebbe stabilire, con grandi approfondimenti, cosa è natura e cosa non lo è, ma non credo mi interessi tanto questo. Certo che, nella cosiddetta natura biologica, esistono tante forme di omosessualità e transessualità, ma il presupposto per me è smettere di farsi questo tipo di domande, sono radicalmente contraria. Per me la cosa inaccettabile è che qualcuno si permetta di decidere del corpo di qualcun’altra o qualcun altro, di giudicarlo. Credo che l’universo sia una grande sinfonia di oggetti e creature continuamente in transizione. Detto questo, anche la natura forse è transitoria.

Tiresias
un progetto di BLUEMOTION
da Hold your own/Resta te stessa di Kate Tempest
traduzione di Riccardo Duranti
regia Giorgina Pi
con Gabriele Portoghese
dimensione sonora Collettivo Angelo Mai
bagliori Maria Vittoria Tessitore
echi Vasilis Dramountanis
costumi Sandra Cardini
luci Andrea Gallo
accompagnamento Benedetta Boggio
una produzione Angelo Mai/Bluemotion

Visto a Roma, Teatro India, il 19 novembre 2021

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