La Biennale Teatro di Venezia pensata dai nuovi direttori artistici Gianni Forte e Stefano Ricci è stata capace di far sentire in maniera forte il loro gusto specifico sulle scelte di programmazione di quest’anno.
I primi giorni a Venezia hanno fatto forse pensare ad un surplus di estetica, ma l’impressione di scelte un po’ trendy si è poi lasciata spazzare via dagli spettacoli successivi.
La Biennale di Ricci/Forte è sì vetrina del già emerso a livello internazionale, ma ha il buon merito di far arrivare a Venezia spettacoli che in Italia difficilmente potrebbero vedersi. Parliamo del Leone d’Oro Krzysztof Warlikowski (“We are leaving”), ma anche del potente lavoro che ha visto uniti sulle scene del Teatro Goldoni Thomas Ostermeier ed Edouard Louis: “Qui a tué mon père”.
Con la sua scenografia essenziale – semplicemente un grande schermo con proiezioni suburbane, una poltrona e un tavolo con un computer, un microfono retto da un palo – la vera forza di questo spettacolo si concretizza nella presenza scenica di Louis stesso, nuova stella della letteratura francese, per sua natura scrittore ma qui sul palco a recitare in prima persona il suo testo, che autobiograficamente ripercorre il proprio vissuto piccolo-borghese, i traumi da adolescente omosessuale, con uno stile attoriale che è l’unico perfetto per recitare quelle parole. Ed è così che si compiono gli sprofondamenti mimetici di questo lavoro, così veri, toccando con mano il lascito fisico, in Louis sulla scena, delle sensazioni, delle problematiche, delle atmosfere della provincia e delle difficoltà economiche vissute fino a una decina di anni prima.
Paradossale la “scavalcabilità” di Ostermeier, quasi non necessario di fronte all’assoluta centralità di Louis nel lavoro, che potremmo riassumere nell’iconica scena in cui, dopo parole gravi e fisse, il sé-performer si libera a ballare nella più completa espressione “I’m a Barbie girl”, o con l’opposto dei poli toccati dal lavoro, quando appende ad un filo – una ad una – le foto di quei politici francesi, facendone i singoli nomi, che hanno creato leggi rivelatesi disastrose per la condizione economica del padre e di tutti i più deboli.
Gran lavoro ed applausi più che sentiti: molti, anche giovani, accorsi pure da lontano per questa speciale presenza veneziana, davvero unica.
Nelle varie giornate di questa Biennale Teatro il gusto di Ricci/Forte si è poi visto concretizzarsi in scelte che “fanno contemporaneo”, come il lavoro, in prima assoluta, “Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro” della compagnia trentina Office for a Human Theatre.
Di valore la prima parte del lavoro, tutta basata sull’autonomia della macchina scenica che è lo spazio di un teatro, di un palco. Si alzano e si abbassano teli, luci, quinte, sbarre. Cambiano le ombre e i colori. Per una mezz’ora si assiste insomma al solo teatro che si muove da sé, fino alla mistica di due fari accesissimi, centrali, con una luce a sguardo che illumina tutta la platea, fino all’accecamento. Se ancora regge, poi, una seconda sezione in un cui un soprano canta qualcosa di simile al gregoriano, in una giusta controluce illusionistica e surrealista, pare un decadimento di ambizioni l’ultima parte del lavoro, in cui una grande farfalla in tela si gonfia d’aria sul palco, abbinandosi ad un fondale con una grande stampa naturalistica, un quasi-paesaggio che ha, per stile e per concetto, poco a che fare con i primi movimenti del lavoro.
Ottimo dunque il nucleo ispirativo; meno, nella seconda parte, il ritorno a teatro.
La sera del 10 luglio sempre il Teatro Goldoni ha visto poi “The book of traps & lessons” del Leone d’Argento Kae Tempest, cui si arrivava con un certo scetticismo, data la prossimità all’ambiente slam. Pregiudizi, però, del tutto annullati di fronte alla pregnanza testuale ed alle capacità performative dimostrate da Tempest nel compimento di quello che è possibile definire come un vero capolavoro contemporaneo. La sua poesia unisce infatti un realismo disperato a brani dalla visionarietà stupefacente. Davvero di valore è proprio la capacità di tenere unito certo sentimentalismo post-adolescenziale quasi da auto-aiuto (tieni a te stesso, tieni i tuoi amori…) con altri momenti invece totali, assoluti e recitati senza la foga che prevale nel resto del tempo, ma anzi dilatandolo, come quando i versi scandiscono volta per volta “7.3 miliardi di esseri umani, 7.4 miliardi di esseri umani. Vi sento tutti”.
Un modo nuovo di essere vate? Performante? Per tanti? Per pochi? Ricci/Forte consegnano all’artista il Leone anche per “valorizzare un ambiente considerato di nicchia come quello della poesia”; di certo, di nicchia o no, questa è poesia veramente, e non mancano i commossi in platea, tra gli applausi senza fine. Piuttosto paradossale, insomma, l’altezza e il valore di questo Leone d’Argento, scelto come di nicchia ma forse così d’effetto per i lati più pop dei suoi testi, quelli prossimi ai nuovi disagi di oggi, alle distanze sociali, all’incomunicabilità emotiva, alle sensazioni di vuoto, di posteriorità ad ogni cosa, così proprie del nostro tempo.
Ultimo gran pezzo, ultimo lavoro, ultima sera, è già domenica: “Sunday” della coreografa Adrienn Hód è forse un’apertura verso la Biennale Danza, ma paradossale. Quest’ultima, col suo programma più classicheggiante voluto da Wayne McGregor, così danzato, sembra aver rifiutato l’estremo slancio performativo di questo lavoro.
Ecco quindi al Teatro Piccolo Arsenale i cinque davvero strabilianti performer: Jenna Jalonen, Csaba Molnár, Marin Lemić, Emese Cuhorka e Zoltán Vakulya, ognuno col suo carattere assurdamente particolare, e con una mobilità tutta propria e specifica da offrire al pubblico.
Si contorcono in qualche movimento maldestro, rallentato, monco, raggrinzito. E parlando un po’ al rallentatore iniziano le loro considerazioni sul mondo dell’arte contemporanea: “Non siamo ritardati davvero, siamo danzatori pagati per fare i ritardati. Ma siamo più ritardati noi, ad accettare di fare i ritardati in scena, o più ritardati voi che ci state a guardare?”.
E’ questa la provocazione al pubblico della Biennale. Tra le loro parole si susseguono poi molti altri riferimenti alle domande che attraversano il contemporaneo, gender troubles, dominance della comunità LGBTQ+, curatrici lesbiche che alle audizioni sono capaci di spogliare solo con gli occhi, o spettatori che vanno a teatro solo per vedere le parti intime di chi danza. Non manca, a questo proposito, il gesto forte “E allora guardami il culo”: un performer si abbassa i pantaloni e mostra tutto; in prima fila due habitué di un teatro forse più tradizionale si alzano e se ne vanno, stanchi delle continue accuse di stupidità a chi guarda. Segue, in questo meraviglioso lavoro conclusivo, una lunga – forse troppo – parte danzata. I performer completamente nudi, con luci gialle, ricostruiscono un ambiente a metà tra l’ancestrale e il primitivo con scene gestuali cariche di una violenza perturbata e perturbante.
Grande riconoscenza per il valore importato e valorizzato da Ricci/Forte. Molto presente alle performance, tra l’altro, anche il Presidente della Fondazione Roberto Cicutto. Fa piacere vederlo, con le sue giacche di lino sui toni del bianco panna, perfino agli spettacoli più decentrati, a dimostrare l’interesse della mastodontica Biennale anche per la settimana del teatro.