
Philippe Genty, uno dei maggiori teorici del teatro di figura, diceva sempre: “Se puoi farlo anche senza un pupazzo, allora non usare un pupazzo”.
La compagnia The Puppet and Its Double Theater prende molto sul serio questo insegnamento, ne fa la propria legge, e combina sei frammenti di teatro di figura in cui, com’è giusto, si mette in scena un altro mondo che, come tale, ha altre regole. “Je suis un autre toi-même”, “Io sono un altro te stesso”, è una storia d’amore tra due abitanti umanoidi, un maschio e una femmina. Lo capiamo, misteriosamente, dai movimenti. In pieno stile orientale, i manipolatori si presentano al pubblico vestiti di nero, faccia scoperta, con un leggero inchino da dietro il tavolo, prima di cominciare ad animare i pupazzi usando la tecnica ‘bunraku’: in due muovono testa, busto e mani, un terzo manovra i piedi. Certe evoluzioni più moderne e “occidentalizzate” puntano alla mimesi totale, coprendo anche il viso dell’animatore con un cappuccio nero e nascondendolo alla luce, di modo che risultino visibili, con puntamenti di fari millimetrici, soltanto i movimenti del pupazzo.
Questa compagnia di Taiwan conserva la tradizione giapponese e ci permette di vedere quattro volti umani. Ne va dell’illusione, ma poco importa, ché spesso è interessante perdersi a guardare proprio quei volti: la prima cosa che si insegna nell’arte di animare è che esiste un legame essenziale tra pupazzo e animatore. L’occhio di quest’ultimo deve accompagnare costantemente i movimenti della sua piccola creatura, dialogare con lei come si insegnano le prime parole a un bambino. Si tratta di un legame assolutamente sottile, fragile, difficile da mantenere vivo, ma è su questo che si basa l’attenzione del pubblico. L’effetto è comunque assicurato, ché sempre vediamo muoversi qualcosa di inanimato. Ma quel canale di tensione fa la differenza.
“Je suis un autre toi-même” è uno spettacolo vecchio stile, apparentemente costruito a numeri, a quadri, che poi s’incrociano a dar vita a una storia comune. I quattro animatori svolgono dolcemente una matassa di garza a scoprire quella che sembra essere una pietra. Riportata alla luce, vediamo comparire due occhi che si aprono e si chiudono, si guardano intorno, come un dio antico incastonato nel granito dei secoli che si sveglia piano piano a controllare il proprio regno. Poi, anche qui come nella migliore tradizione di figura, il cranio si spalanca e quella testa diventa una scatola. Dalla scatola vola fuori un piccolo personaggio, intento a cavare dal buco anche l’enorme valigia che spingerà in un viaggio lungo tutto lo spettacolo.
La trasformazione inaspettata è propria di questo teatro e avviene sempre con una punta di ironia, una strizzata d’occhio al fatto che niente, secondo le regole di questo piccolo mondo altro, è quasi mai come sembra. Così, allora, due corde che attraversano parallele il palco unite da traversine di legno fungono ora da ponte su cui l’esile personaggio femminile azzarda una passeggiata da funambolo, ora da ferrovia per una rumorosissima locomotiva di gommapiuma che butta fumo e luci facendo tremare tutto, appena prima che i binari prendano a innalzarsi nel cielo diventando una scala a pioli da cui scende il primo piccolo personaggio, trascinandosi giù la solita valigia. Trasformazione inaspettata, motore della storia.
Non mancano anche gli intermezzi di pura comicità, piccoli sketch che somigliano ai cartoni animati Warner Bros: stessi personaggi alle prese con variazioni delle stesse situazioni. Allora una mamma canta una dolce ninnananna al figlioletto che, invece, si scopre essere un ferocissimo cane/pesce che se la divora in una risata beffarda. E quel simpatico predatore tornerà a metter la chiosa a quasi tutti i quadri, compreso quello finale in cui i due innamorati s’incontrano, a morte avvenuta, da angeli svolazzanti, per un unico e ultimo abbraccio, prima di venir inghiottiti anche loro dalla buffa bestia famelica. Una doppia morte, alla quale sorridiamo, soprattutto se il cane/pesce finisce per scomparire anch’esso, risucchiato da una nuvola di denso fumo profumato.
A riaffiorare sono solo i quattro volti asiatici, sorridenti, pronti a un piccolo inchino. Come dire che è stata tutta un’illusione. Grazie di essere passati ad applaudire.
JE SUIS UN AUTRE TOI-MÊME
di Chia-Yin Cheng
produzione: The Puppet and Its Double Theater, Taipei
interpreti: Jui-hsia Hung, Yu-jane Liu, Mi-chen Chiu, Chun-chan Wei
regia: Chia-Yin Cheng
tecnica: Yan-Ting Tseng
musiche: Young Chen
luci: Tien-hung Wang
costumi: Ani-li Luo
scene: Ming-hsien Wu
durata spettacolo: 1 h 05′
applausi del pubblico: 1′ 08”
Visto ad Avignon, Thêatre La Condition des Soies, il 9 luglio 2009
Festival de Avignon Off