“La Gioconda” di Amilcare Ponchielli è universalmente nota al grande pubblico soprattutto per un pezzo orchestrale, “La danza delle ore”, un momento di danza inserito in un’opera di quattro ore assai difficile da rappresentare, sia per l’elevato numero di personaggi primari e comprimari, che per l’estrema complessità dell’apparato scenico e della trama, e sia infine per la costruzione musicale in qualche modo anomala, ma appunto per questo assai interessante.
E’ per tutte queste ragioni che “La Gioconda” è misconosciuta e poco eseguita nel panorama lirico italiano, prova ne è il fatto che il brano più famoso non è operistico ma strumentale.
Ci siamo quindi “fiondati”, è il caso di dirlo, al teatro Valli di Reggio Emilia per ascoltarla, in quello che è stato avvertito, nel panorama nazionale del melodramma, come un vero e proprio evento.
Debuttò al Teatro alla Scala l’8 aprile 1876, ed è scritta su libretto di Arrigo Boito (firmatosi con lo pseudonimo e anagramma di Tobia Gorrio), che lo trasse dal dramma di Victor Hugo “Angelo, tyran de Padoue” del 1835. Ponchielli si gettò nell’impresa, avendo anche paura di raffrontarsi con il precedente “Il giuramento” di Saverio Mercadante, una fortunata riduzione operistica del medesimo soggetto che aveva debuttato alla Scala l’11 maggio 1837.
Boito dunque, anche per questo, decise di riadattare il soggetto con grande libertà, introducendo la figura del perfido Barnaba e dando nuove caratteristiche a quasi tutti gli altri personaggi.
La stesura dell’opera fu assai tormentata, se dopo la prima scaligera fu rimaneggiata diverse volte, ri-debuttando in forma definitiva al Politeama Genovese il 27 novembre 1879, revisionata da Angelo Zanardini e tornando alla Scala quattro anni dopo il debutto, il 12 febbraio 1880, con il grande Francesco Tamagno nel ruolo di Enzo.
Poco per volta, insomma, Ponchielli era riuscito a trovare la giusta misura nell’adattare il libretto di Boito al proprio sentire musicale.
Con questo melodramma, considerato il suo capolavoro, Ponchielli riuscì a mescolare la grand’opéra francese ad echi donizettiani e soprattutto verdiani, in un contesto scenico animato da passioni dai forti accenti, che prefigurano il verismo più “acceso” (si pensi alla bellissima aria di Gioconda “Suicidio”).
La trama e il suo libretto, pur inseriti in un quadro storico preciso, vivono in un’aurea a sé stante, quasi da romanzo d’appendice, mossi da un miscuglio di rimandi, dal “Trovatore” a Carolina Invernizio, fra tardo Romanticismo e nascente Scapigliatura, con esiti a volte persino grotteschi.
L’azione si svolge nella Venezia del XVII secolo, e ha come protagonista una donna, denominata appunto La Gioconda, che cura la vecchia madre cieca. Gioconda è amata, non corrisposta, dal sordido Barnaba, informatore del Consiglio dei Dieci, che istiga la folla contro la cieca, additandola come strega.
Gioconda è invece perdutamente innamorata di Enzo, un principe genovese, proscritto da Venezia, che si finge marinaio dalmata, il quale ovviamente, come vuole la trama di un melodramma, a sua volta ama Laura, moglie di Alvise Badoero, nobile veneziano e inquisitore di stato. E’ lei che salva la cieca dalle ire del popolo, ricevendo in cambio un rosario portafortuna.
Barnaba intanto si avvicina ad Enzo, chiamandolo col suo vero nome, e assicurandolo che terrà il segreto per sé. Anzi, gli promette che favorirà la sua fuga con Laura sulla sua nave; ma Gioconda, avendo saputo del piano, decide anch’essa di salire su quella nave.
Lì Enzo e Laura si scambiano dolci parole, ma interviene Gioconda che minaccia di consegnare la donna al marito. Quando Laura, spaventata, alza il rosario donatole dalla cieca, Gioconda la riconosce come la donna che ha salvato sua madre, e l’aiuta a fuggire.
Alvise, saputo il tradimento della moglie, la induce a bere del veleno, ma Gioconda sopraggiunge e convince Laura a fingersi morta, bevendo da un’altra boccetta, che contiene un potente narcotico.
Rimasta sola, la donna, che generosamente ha preferito la felicità dei due amanti alla sua, medita il suicidio.
Enzo è disperato, vuole raggiungere il sepolcro di Laura e uccidersi, ma Gioconda gli svela che è viva, e infatti proprio in quel momento Laura si risveglia.
L’uomo, dopo aver appreso il sacrificio di Gioconda, la benedice e fugge con l’amata Laura, mentre Barnaba, in cambio della liberazione di Enzo, “chiede il corpo” di Gioconda. Ma come accade nel Trovatore verdiano, ella si uccide, in questo caso, accoltellandosi a morte.
Barnaba, beffato, vuole vendicarsi rivelandole che le ha appena ucciso la madre. Ma è tardi: Gioconda è già morta.
Come si vede è una trama complessa, ricca di colpi di scena, macabri e anche difficili da rappresentare.
La regia di Federico Bertolani individua con efficacia nell’acqua l’elemento caratterizzante della scena: un’acqua i cui riverberi, complici le luci di Fiammetta Baldisseri, invadono il teatro, un’acqua che ricopre man mano il palcoscenico. Su passerelle a palafitta, che di volta in volta – attraverso le semplici ma suggestive scenografie di Andrea Belli – diventano le calli di Venezia, la palude della Giudecca, la nave di Enzo, si muovono i personaggi. Meno congrue invece ci sono sembrate le quinte e le posticce pareti in cellophane che richiamano e proseguono anche in verticale l’effetto di liquidità dell’acqua.
I rapporti tra i personaggi vengono evidenziati sin dall’ouverture, con un efficace tableau vivant, impreziosito dai bei costumi settecenteschi di Valeria Donata Bettella, dove i protagonisti principali interagiscono tra loro.
I cantanti sono impegnati in una vocalità assai particolare, ancora piena di accenti romantici ma posti in un contesto che prelude al Verismo, di cui bisogna tenere conto nell’interpretazione.
In questo senso svetta la vocalità della giovane spagnola Saoia Hernández nei panni della protagonista, davvero notevole sia come attrice che come interprete, dalla voce piena di sfumature, dotata di un bel timbro e di giusti fraseggi.
Accanto a lei Francesco Meli, come Enzo, ormai ritenuto un divo dai melomani, che ha perfino bissato la sua aria “Cielo e Mar”, debuttando in un ruolo secondo noi a lui poco congeniale, che seppur con qualche fissità ha retto in modo nel complesso autorevole.
Ci hanno convinto pienamente il baritono Sebastian Catana, che ha impersonato in maniera adeguata il perfido Barnaba e Agostina Smimmero come cieca madre di Goconda. Ci ha invece in parte deluso Anna Maria Chiuri che ci aveva invece assai appassionato nei tre ruoli del Trittico pucciniano, visto il mese precedente sempre al Valli. Qualche perplessità abbiamo anche per Giacomo Prestia come Alvise, bravo nei recitativi, meno nel proporre il cantato.
Il direttore Daniele Callegari accompagna con giusto piglio l’Orchestra Regionale Emiliana nelle diversificate atmosfere che l’opera di Ponchielli contiene, riuscendo a creare un ottimo equilibrio tra voci e strumenti, sostenendo egregiamente le parti corali, assai importanti nel capolavoro di Ponchielli.
Il Coro del Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati, al quale si è affiancato quello Farnesiano di voci bianche, ha ben retto lo sforzo interpretativo di un’opera così complessa.
Un poco generica ci è parsa invece la coreografia di Monica Casadei con i ballerini di Artemis Danza, impegnati nella celeberrima “Danza delle Ore”.
Grazie alla Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena e I Teatri di Reggio Emilia si è così potuto assistere con “La Gioconda”, dopo 65 anni, alla riscoperta di un repertorio spesso a torto dimenticato.
La Gioconda
Melodramma in quattro atti su libretto di Arrigo Boito
Musica di Amilcare Ponchielli
La Gioconda Saioa Hernández
Enzo Grimaldo Francesco Meli
Laura Adorno Anna Maria Chiuri
Alvise Badoero Giacomo Prestia
La Cieca Agostina Smimmero
Barnaba Sebastian Catana
Zuàne Graziano Dallavalle
Un Cantore Nicolò Donini
Isèpo Lorenzo Izzo
Un Pilota/Barnabotto Simone Tansini
Direttore Daniele Callegari
Regia Federico Bertolani
Scene Andrea Belli
Costumi Valeria Donata Bettella
Disegno luci Fiammetta Baldiserri
ORCHESTRA REGIONALE DELL’EMILIA ROMAGNA
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
maestro del coro Corrado Casati
VOCI BIANCHE DEL CORO FARNESIANO DI PIACENZA
maestro del coro Mario Pigazzini
COMPAGNIA ARTEMIS DANZA/MONICA CASADEI
coreografie Monica Casadei
Nuovo Allestimento
Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Visto a Reggio Emilia, Teatro Valli, l’8 aprile 2018