L’adattamento di Emanuele Aldrovandi è messo in scena al Teatro Carcano di Milano
Nel marzo del 2020, quando ci ritrovammo di colpo chiusi in casa per il divampare di un virus semisconosciuto, alcuni di noi resero più sopportabile l’isolamento ricorrendo alla letteratura. Pagine dimenticate di autori che ci avevano fatto innamorare o disperare al liceo, come Boccaccio o Manzoni. Oppure autori meno letti, come Tucidide, Virgilio, Machiavelli. A volte, riferimenti di nicchia come Marsilio Ficino, Fracastoro, Defoe, Poe, Artaud.
Alcuni di noi in quel periodo hanno (ri)letto “La peste” di Albert Camus. Era possibile, attraverso questo romanzo del 1947 ambientato in Algeria, trovare un sorprendente filo rosso con la nostra condizione, proprio mentre nel lessico quotidiano entravano parole come coronavirus, pandemia, dispositivi di protezione, lockdown.
“La peste” di Camus descriveva già settant’anni fa la nostra epoca Covid: la chiusura tardiva o senza preavviso delle città. I turisti o i lavoratori fuori sede intrappolati. Gli incettatori, gli sciacalli, gli speculatori. I pareri contrastanti dei medici. Le misure di contrasto all’emergenza, sempre più rilevanti: l’isolamento dei malati, la quarantena per le famiglie, il coprifuoco. Lo stupore dei cittadini, tra negazionismi e sottovalutazioni. I rimedi terapeutici, tra scaramanzia e stupidità. Le serrate di cinema e teatri. Persino l’abolizione dei funerali.
Il romanzo di Camus poteva dunque essere l’occasione migliore per parlare di pandemia anche a teatro, scongiurando sia i modi troppo diretti della cronaca, sia quelli a volte velleitari della metafora.
“La peste” ha sedotto anche Serena Sinigaglia, condirettrice artistica insieme a Lella Costa del Teatro Carcano di Milano. Proprio qui la regista fondatrice di Atir ha messo in scena Camus con l’adattamento drammaturgico di Emanuele Aldrovandi, in una coproduzione TSV – Teatro Stabile del Veneto, Teatro Stabile di Bolzano e Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano.
In “La peste. Il tentativo di essere uomini”, Maria Spazzi costruisce una scena con sacchi di ghiaia e sabbia, accatastati a formare una sorta di barricata. Sui sacchi si ergono, stendono, siedono attori assai affidabili come Marco Brinzi, Alvise Camozzi, Matteo Cremon, Oscar De Summa e Mattia Fabris. Dietro i sacchi aleggia una nuvola di vapore, cappa mefistofelica a rendere i miasmi del morbo. A fugare le angosce di un’epoca tenebrosa, i colori chiari, coloniali, dei costumi di Katarina Vuktevic e le luci di Alessandro Verazzi, che sprigionano quel po’ di luminosità laica che pervade il romanzo di Camus. Anche i suoni e le scelte musicali di Sandra Zoccolan sono contrappunto armonico al piano narrativo, incentrato sui dialoghi e sui flussi di coscienza dei personaggi principali: il medico Rieux, il suo amico Tarrou, il trafficante Cottard, il funzionario municipale Grand, il giornalista Rambert. I protagonisti si sdoppiano in personaggi secondari: il portinaio, il prete Paneloux, il procuratore generale Othon, il vecchio asmatico.
Costruito in cinque parti come una tragedia, il romanzo ben si presta all’adattamento scenico. I novanta minuti dello spettacolo scorrono leggeri. I sacchi perforati, sciorinati in piroette sulla scena, creano coreografie di sabbia, a disegnare un luogo deserto imbiancato dalla polvere, saturo di odori marini, sonoro come le grida del vento, percosso come un’isola infelice. Ma quei sacchi ricordano anche il bisogno di difendersi e proteggere la città, il cemento per ricostruirla, lo scorrere inesorabile del tempo, la calce per seppellire i morti. E ci sovvengono anche quei sacchi di farina che due anni fa ci trasformarono in un esercito di panificatori, chiusi nelle nostre tiepide case.
Aldrovandi e Sinigaglia scelgono di non esasperare. Sfumano le immagini più struggenti del romanzo e attenuano i dettagli più realistici che rendono intollerabile la descrizione del contagio.
La regista, con un’espressione ormai logora, definisce “necessario”, il testo della “Peste”. Eppure qui avvertiamo poco l’eco delle sensazioni deliranti trasmesse dal romanzo, da noi stessi condivise durante l’infuriare del Covid.
Il morbo è un calvario collettivo. Sinigaglia evidenzia nel sottotitolo il “tentativo di essere uomini”. Restano però in superficie sia l’indagine degli impulsi individuali, sia la piaga dei sentimenti collettivi.
Certo non era facile costruire uno spettacolo sulla pandemia. Niente è meno spettacolare di un flagello. Le grandi disgrazie sono monotone anche a causa della loro stessa durata.
Aldrovandi e Sinigaglia hanno il merito di confezionare uno spettacolo vivace. Non indagano però come la minaccia quotidiana di morte e confinamento deformino il comportamento delle persone. In quest’opera le colpe ricadono sul fato, forse sui topi, forse persino su Dio. Gli uomini, sostanzialmente, ne restano immuni. Si perde così l’occasione di leggere il testo in chiave metaforica, per decifrare la storia contemporanea (il conflitto in Ucraina e non solo). Scritto dopo la seconda guerra mondiale, il romanzo di Camus aveva, infatti, anche un significato storico: i campi di quarantena, le minacce, l’isolamento, l’affollamento dei malati negli ospedali e poi nelle scuole, le cremazioni evocavano il nazismo, i campi di concentramento, l’oppressione in tutte le sue forme, la resistenza di chi si schierava con le vittime.
E un po’ evapora, con il fumo in scena, il significato più generale del romanzo. Che voleva testimoniare non solo la sofferenza e la malattia, ma anche l’impegno di uomini virtuosi in una lotta senza tempo. Proprio nel segno di Rieux. Che sapeva che la peste non muore né scompare.
E che sarebbe arrivato il giorno in cui, per la rinnovata disattenzione degli uomini, un bacillo avrebbe risvegliato i topi mandandoli a morire in un’altra città felice.
LA PESTE
Il tentativo di essere uomini
versione italiana e adattamento Emanuele Aldrovandi
dal romanzo La peste di Albert Camus © Edizione Gallimard
regia Serena Sinigaglia
scene Maria Spazzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Alessandro Verazzi
suoni e scelte musicali Sandra Zoccolan
con Marco Brinzi, Alvise Camozzi, Matteo Cremon, Oscar De Summa, Mattia Fabris
assistente alla regia Giacomo Ferraù
assistente ai costumi (tirocinio) Matilde Casadei
direttore di scena Giuliano Almerighi
elettricista/ consollista Lorenzo Crippa
fonico Michele Accardo
sarta Caterina Berta
foto Serena Serrani
video Serena Pea
realizzazione scene e costumi A.T.I.R. Milano
produzione TSV – Teatro Stabile del Veneto, Teatro Stabile di Bolzano, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano
durata: 1h 30’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Carcano, il 22 marzo 2022