La donna e il vuoto d’amore: è questo il tema che accomuna “Cleopatràs”, “Erodiàs” e “Mater Strangosciàs”, i tre lai di Giovanni Testori. L’amore che deve fare i conti con l’assenza insanabile del destinatario del sentimento.
A questo si dedicò nei suoi ultimi lavori lo scrittore e drammaturgo milanese morto nel 1993 a settant’anni, figura assai complessa della cultura italiana, che attraversò il dopoguerra e l’Italia della ricostruzione e del boom con il suo sguardo particolarissimo. A lui si deve “Il ponte della Ghisolfa”, da cui fu tratta una delle pellicole paradigmatiche della stagione del noerealismo, “Rocco e i suoi fratelli”. La città che si trasformava, il territorio che nemmeno un secolo prima era quello di Manzoni e che prima delle due guerre, poco fuori la città, era ancora quello miserabile de “L’albero degli zoccoli”.
Questa terra, fra letteratura e dialetto, spiritualità e pulsioni, si riverberò nella produzione dello scrittore in una lingua particolarissima, fatta di neologismi, parole rubate al popolo e declinate come fossero un latino o un franco-ispanico letterario da fine Medioevo.
In questa lingua si fa asfissiante ed estrema la ricerca di assonanze di senso, per certi versi incomprensibili a chi in questo territorio non è nato e dunque non ne ha assorbito il dialetto come lingua madre, ma anche a chi non è depositario di una vasta cultura letteraria ed artistica come quella cui, con caparbietà, Testori poté aver accesso fin dalla prima formazione, con maestri del calibro di Roberto Longhi.
Nell’alchemico dialettale del suo linguaggio trova protezione l’identità testoriana più fragile e infuocata, che doveva conciliare omosessualità e formazione religiosa, quasi per contrapposizione alla lucida prosa giornalistica dedicata alla cronaca e all’arte, dalle collaborazioni iniziali sulla stampa fascista fino alla sua fase matura, per “Il Sabato”, organo di informazione di Comunione e Liberazione (del Testori giornalista fece lettura spettacolare alcuni anni fa Ermanna Montanari).
Testori per il teatro è quindi sempre un’impresa, perché occorre confrontarsi con l’inaccessibile e porgerlo ad un oggi che, con i tempi di quella scrittura, non ha più legame stretto, almeno apparentemente, perché invece le note di regia di Renzo Martinelli per “Erodiàs”, in scena fino al 5 dicembre al Teatro i di Milano, esprimono le dicotomie senza tempo di quest’opera: corpo e mente, ignoranza e conoscenza, sesso e morte. Infinite declinazioni di una vita, quella della protagonista, ma in fondo anche di Testori, che cerca, non trova, e allora attende, come se non ci fosse altra possibilità.
Con questa visione iniziamo la lettura dello spettacolo dal fondo, ma nelle questioni biografiche cui si è fatto cenno si trovano tutte le ragioni di un progetto per il teatro in cui la regia, con la consulenza artistica di Sandro Lombardi, grande attore testoriano e vicino alla figura di Roberto Longhi, persino interpretata in un documentario con finalità divulgative, cerca una sorta di continuazione del dialogo di Testori con la lingua dell’arte, anche quella successiva alla sua morte.
È un ricamo tutt’altro che impossibile quello tentato, affidato all’attrice Federica Fracassi, notevolissima nell’ interpretazione, elemento su cui si sono concentrati moltissimi giustificati plausi della critica, in ragione di un rapporto con il testo che riesce davvero a far rivivere le torbidità delle figure più controverse della letteratura lombarda, come la manzoniana monaca di Monza, nella versione artistico postribolare che filtra dalle persiane testoriane.
Ma commentare la lettura complessa e polisemica che Martinelli sceglie focalizzandosi in particolare sul recitato, rischia di non dare la leggibilità completa su un’operazione che invece fonda, a nostro avviso, una sua capacità forte di porsi come paradigma di una serie di nuove possibili riletture di Testori, fatte di ricerca del suo senso oggi, di dialogo con le oscenità presente, con il nostro barocco pop e post drammatico, senza rinunciare al confronto e alla ricerca con e nell’arte.
L’operazione di intreccio del testo con il recitato, i segni visivi presenti sul palcoscenico illuminati da Mattia De Pace e quelli sonori messi a punto da Fabio Cinicola, è molto complessa, raffinata, e si traduce in una raffica di idee che non v’è dubbio possano dare a certuni l’idea del tantissimo, ma è innegabilmente un contrappunto dialettico e contemporaneo ad una parola, quella testoriana, che pure quando scenicamente spoglia, comunica comunque il senso del tanto, dell’incomprensibile, del flusso di coscienza coltissimo e puttanico, di dipinto di maniera di scuola caravaggista e di impronta di piscio barbone all’angolo di periferia.
Martinelli mette tutto questo in una teca di plexiglass sporca, come l’agnello di Hirst, ma qui l’annunciatore dell’Agnus dei viene reincarnato, in una prospettiva Zelig, dalla donna invaghitasi di lui e che ne prende il sembiante, citando il Giovanni decollato di Leonardo, riconoscibile a parer nostro dalla barba stile olandese che incornicia il volto della Fracassi.
L’esegesi dei moltissimi segni, il continuo flusso di quadri viventi che la Fracassi interpreta è nei fatti impossibile, come impossibile decodificare le citazioni metatestuali di Testori.
Se il rischio del segno sul segno è per certa parte ineludibile, è indubbio che il tentativo di Martinelli trova la sua potenza nel permettere al recitato testoriano di non diventare mai ipnotico suono incomprensibile e grammelot nella testa dello spettatore, vivificando un continuo rimando ad un sistema leggibile di intenzioni del presente e del passato di cui la messa in scena si fa cover musicale, come quando il processo a Giovanni di cui Erodiade è spettatrice morbosa viene commentato con il sonoro de “L’indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, ma non nella partitura originale di Morricone, bensì con una manipolazione sonora di una cover, quella contenuta in “The Director’s Cut “(2001), il secondo disco dei Fantômas. E questo citare la citazione comunica il senso dell’intenzione di Martinelli.
Erodiade è come l’ignorante che si innamora dell’intellettuale, come Elide in “C’eravamo tanto amati”, la figlia analfabeta del palazzinaro romano che fa arrivare la porchetta con la gru per festeggiare l’apertura del cantiere.
“Erodiàs” vive giocando fra opere d’arte che nelle sue mani perdono improvvisamente la loro aura per diventare oggetto, come nel caso di un iconosclasta sex toy che perde la sua inanimata stasi nelle teca museale per diventare cazzo brandito come bacchetta magica, in una non sempre intellegibile, ma indubbiamente per noi affascinante, discussione sul senso della creazione d’arte oggi, sul rapporto semiotico fra segno e simbolo, che è in fondo quanto anima la parola di Testori.
Martinelli, grazie alla Fracassi, rende tutto più o meno comprensibile e ha il pregio anche di rendere chiara la lingua dello scrittore per chi lombardo non è, scrostandolo di un certo neopitagorismo d’accento lombardo, che ha segnato le scarse fortune di Testori nell’Italia cispadana (dove è praticamente sconosciuto e non rappresentato) per renderlo agevole a un pubblico potenzialmente più ampio, come speriamo sia quello che potrà confrontarsi con questa pregevole costruzione d’intelletto collettiva, forse non perfetta, ma adorabilmente intelligente, non banale.
Qui, rispetto alla storia del regista, certi suoi ermetismi dilatati di alcuni lunghi allestimenti lasciano il posto a più taglienti – e per noi interessanti – minisequenze, di cui questa creazione si compone.
In Erodiàs, che è della Fracassi non meno di quanto sia di Martinelli e di tutto il gruppo di Teatro i, si tenta un’operazione riuscita, che si muove su diversi e particolari piani di reinterpretazione del testo e ce lo riavvicina senza banalizzarlo, in maniera forse imperfetta, ma non didascalica né povera, anzi composita, mai statica, di dannazione dantesca e porcheggio da tavolo nascosto di balera.
ERODIÀS
Produzione Teatro i
di Giovanni Testori
con Federica Fracassi
regia di Renzo Martinelli
dramaturg Francesca Garolla
assistente alla regia Irene Petra Zani
suono Fabio Cinicola
luci Mattia De Pace
consulenza artistica Sandro Lombardi
creazione costume d’epoca Cesare Moriggi
consulenza e realizzazione oggetti di scena Laura Claus
foto di scena Lorenza Daverio
con il sostegno di Next / Regione Lombardia
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 3’14”
Visto a Milano, Teatro i, il 19 novembre 2016
Prima nazionale