Due madri e un figlio. Straligut su adozione e identità

A. Né occhi né naso né bocca
A. Né occhi né naso né bocca
A. Né occhi né naso né bocca (photo: Costanza Maremmi)

Prima di entrare in platea una comunicazione di servizio avvisa che il pubblico non dovrà per forza star seduto, che lo spettacolo sarà tridimensionale, che si svolgerà su tre lati, e che si potrà circolare liberamente all’interno della sala per assistere dall’angolazione preferita.
Di fatto, appena entrati, tutti si mettono a sedere, abitudinari e forse leggermente intimoriti dal buio pesto e dagli strani suoni.

Straligut Teatro, in collaborazione con Murmuris, affronta in questo “A. (né occhi, né bocca, né naso)” un tema scottante e delicato: quello dell’adozione. Un figlio e due madri. E tre sono infatti i personaggi in scena, che prendono posto all’interno del cubo posto al centro della platea. Un cubo di stoffa nera, nel quale si intravedono all’interno figure illuminate da una luce. Le ombre si allungano sugli spettatori, in un bell’effetto visivo che sdoppia l’attore dentro e fuori dal cubo.

Un figlio e due madri, si è detto. La madre naturale, di bianco vestita quasi come un sposa, una Madonna, issata su un piano più alto rispetto agli altri, ad indicarne forse la superiorità o l’irraggiungibilità. Una donna che ha voluto/dovuto rinunciare a suo figlio e affidarlo a un’altra donna.

Lei, la madre adottiva, di nero vestita e un po’ sciatta, continua a ricordare l’infanzia di suo figlio, quando era piccolo e la domenica andavano fuori, sia col sole che con la pioggia. Un figlio del quale non sa smettere di prendersi cura.
Infine A., il figlio adottato e rinnegato, che soffre per non aver conosciuto la madre naturale. E che non riconosce nei tratti del volto della donna che l’ha cresciuto nulla di sé, “né occhi, né bocca, né naso”.
Ora che aspetta una bambina sua, naturale, sa che non sarà facile, sa che la proteggerà, la amerà e la odierà allo stesso tempo; ha i dubbi, le paure tipiche di un quasi-padre, ma la certezza che non sarà una bambina senza volto; sa che in lei ritroverà i suoi occhi, il suo naso, la sua bocca.

Un monologo commovente, quello finale, che però lascia aperta la porta del dubbio: i figli naturali sono più amati di quelli adottati? Crescere un figlio, cullarlo, dargli da mangiare, portarlo a scuola e seguirlo nel suo percorso di vita non valgono i nove mesi passati nell’utero della madre naturale?

I teli neri della scatola non lasciano vedere ma solo intravedere, celano sentimenti e dolore; è il buio del rifiuto, del non sentirsi tutto intero, e la pena di non riuscire a definire una propria identità, di un amore che non si riesce a svelare, al buio, oscurato, che forse non può essere accettato o capito.
Il terreno è piuttosto scivoloso; l’atmosfera soffocante. E anche se siamo stati invitati a muoverci liberamente, sono pochi quello che lo fanno realmente, quelli che provano a sfidare il buio e il silenzio del teatro, con i propri tacchi, le proprie ombre.

Alla fine si rimane un po’ con un punto interrogativo sulla testa. Certo, il compito del teatro non è dare delle risposte, semmai porre degli interrogativi e spingere alla riflessione. Da questo punto di vista, quindi, il compito è pienamente assolto. Eppure il risultato non convince fino in fondo.
Lo spettacolo punta su un tema difficile (e interessante) senza sfruttarne appieno le possibilità. A tratti il ritmo viene a mancare e anche la partecipazione del pubblico sembra venir meno. Trasportando il lavoro nel limbo dei senza infamia e senza lode.


A. (NÉ OCCHI, NÉ BOCCA, NÉ NASO)

regia: Fabrizio Trisciani
regista assistente: Francesco Perrone
con: Laura Croce, Lucia Donati, Tommaso Innocenti
costumi: Marco Caboni, Barbara Trisciani
spazio scenico: Fabrizio Trisciani
una co-produzione Straligut Teatro – Murmuris Teatro 2010
durata: 45’
applausi del pubblico: 1’ 15’’

Visto a Firenze, Teatro Everest, il 14 gennaio 2011

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