L’Odissea dei detenuti di Castelfranco Emilia debutta al Festival Trasparenze

Odissea (photo: Chiara Ferrin)|Photo: Chiara Ferrin
Odissea (photo: Chiara Ferrin)

Teatro dei Venti prosegue nel suo cammino di inclusività presentando al festival due diversi progetti

“Fatti non foste per vivere come bruti ma per insegnar vertute e canoscenza”.
E’ con queste significative parole che ci accoglie la nostra guida, Vittorio Continelli, per accompagnarci in una emozionante “Odissea”, ambientata nei suggestivi e diversificati spazi del carcere di Castelfranco Emilia. Tra giardini verdeggianti, punteggiati dai primi fiori primaverili, e serre in cui zampettano decine di vispi e colorati conigli, il Teatro dei Venti di Modena ambienta il poema omerico. Protagonisti i magnifici detenuti del carcere, che rendono vive tutte le molteplici avventure dell’eroe greco.

E’ questa a cui partecipiamo l’ultima replica delle otto che sono andate in scena – dal 3 al 7 maggio – nella casa di reclusione emiliana, una delle quali esclusivamente per un pubblico di detenuti e due per gli alunni dell’istituto d’istruzione superiore Spallanzani, sedi di Castelfranco Emilia e Monteombraro, per un totale di oltre 300 spettatori.
Un grande inizio per la decima edizione del Festival Trasparenze, che ancora una volta caratterizza questa compagnia come uno dei gruppi più impegnati nella realizzazione di una scena inclusiva, che utilizza il teatro come mezzo di riscatto sociale e umano.

Questa esperienza immersiva a cui abbiamo partecipato è il risultato finale di un lavoro costante svolto all’interno della struttura carceraria e in parallelo in sala prove e da remoto, tra riunioni, discussioni a distanza e riprese video in teatro: “Un viaggio diventato sfida, che prende forma dopo oltre tre anni di ricerca, prove e confronto”.

E’ infatti un vero e proprio viaggio che, sotto un cielo bigio ma per fortuna senza pioggia, compiamo insieme ad un’altra settantina di compagni di avventura che, dopo un lungo percorso all’aperto, ci porta nei grandi spazi al chiuso che circondano il parco del penitenziario.
La nostra guida, partendo dai versi di Dante che tutti sappiamo a memoria, ci narra le molteplici avventure dell’eroe omerico, i suoi viaggi, gli incontri straordinari, i naufragi costellati da prodigi, le discussioni e le volontà degli Dei dell’Olimpo che ne caratterizzano il destino.

Ma è dentro l’ex falegnameria e i camminamenti interni del carcere che la parola diventa sangue, come quello dei compagni di Ulisse che, all’inizio del nuovo viaggio, si sparge sul muro bianco quando vengono divorati da Polifemo: un detenuto ci accoglie seduto davanti ad un piccolo tavolino, disseminato da piccole figure impastate che frantuma, ingoiandole voracemente.

Proseguiamo, superando ogni volta soglie diverse che ci fanno immergere nel viaggio di Ulisse, attraverso nuovi stupori e suggestioni. Insieme alle parole sono soprattutto i corpi dei detenuti che diventano narranti: il corpo di Polifemo, quello dell’uomo diventato maiale per i prodigi di Circe, quelli dei morti dell’Ade che intravvediamo tra le luci stroboscopiche, quelli dei miseri compagni dell’eroe, che si avvicinano strisciando alla carne vietata dei sacri Buoi del Sole.
E poi dopo le parole di Tiresia, l’indovino cieco che predice il vero; ed ecco una cascata d’acqua che li sommerge per aver trasgredito gli ordini dati.

Odissea (photo: Chiara Ferrin)
Odissea (photo: Chiara Ferrin)

Tutto appare come un sogno ad occhi aperti, come un prodigio che si fa strada nel buio. C’è spazio, prima, anche per la danza, con la nostalgia per la patria che un performer, sotto le spoglie di Eolo, il Dio dei Venti, che allontana Ulisse dalla sua patria, ci trasmette sotto le note di “Nostalgie d’amore”. Poi il racconto con l’incontro di Alcinoo, il re dei Feaci, e l’arrivo ad Itaca.
Finalmente, attraverso il racconto di Penelope (Alessandra Amerio), che ci narra della terribile vendetta sui Proci, usciamo all’aria aperta. E’ lei che ci conduce all’interno di una serra, e qui le parole riacquistano un significato inaspettato, che ci riconsegnano una Penelope battagliera. Ed è lei che rivendica al marito, ritornato, una fedeltà durata vent’anni di cui in verità nessuno mai ha raccontato molto, tutti presi a riconsegnare al mito le avventure del marito Ulisse.

E così Omero si trasforma d’incanto in Ibsen, mentre alla fine una bambina, Greta Esposito, legge un biglietto con una poesia di Dorothy Parker, che la regina di Itaca le ha lasciato: “Nel cammino del sole, nella direzione della brezza, dove il mondo e il cielo sono una cosa sola, lui cavalcherà i mari d’argento, lui fenderà l’onda scintillante. Io starò seduta a casa, a dondolarmi; mi alzerò, per dar retta al vicino che bussa; preparerò il mio tè, e disfarò la mia tela; candeggerò le lenzuola del mio letto. Loro chiameranno lui coraggioso”.

Vittorio Continelli, Massimo Don e Stefano Tè, con l’ammirevole apporto di tutti i detenuti del carcere di Castelfranco, ci restituiscono il poema omerico attraverso un coacervo di linguaggi della scena multiformi e diversificati: racconto, radiodramma, teatro fisico, prosa, che diventano insieme teatro esperienziale; un’esperienza profonda che riunisce attore e spettatore.

E non è un caso se il giorno precedente, a Modena, abbiamo assistito anche, al Teatro dei Segni, a “Quel che resta” del Gruppo l’Albatro, prodotto sempre dal Teatro dei Venti all’interno del progetto regionale “Teatro e Salute Mentale”. Il gruppo è nato nel 2009 a partire dal laboratorio “Il volo dell’Albatro”, promosso dalla collaborazione tra Sportello Social Point Modena e la compagnia modenese diretta da Stefano Tè, che ci racconta: “Fin dall’inizio si è configurato come un progetto aperto a utenti dei servizi di salute mentale e altri partecipanti interessarti a fare un percorso di inclusione attraverso il teatro. Il percorso permanente continua con incontri settimanali e periodi di prove intensive in prossimità delle repliche degli spettacoli, con il sostegno del DSM-DP dell’Ausl di Modena, all’interno del progetto regionale Teatro e Salute Mentale”.
“Quel che resta”, drammaturgia di Damiana Guerra con la regia di Oxana Casolari, Francesca Figini e Danilo Faiulo, è tratto da “L’isola dei senza memoria” di Yoko Ogawa, ed è stato elaborato dai dieci partecipanti al progetto durante il lockdown.

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