Proseguiamo oggi la lunga intervista di Klp a Paolo Spaziani, tra i migliori attori e performer italiani.
Noi spettatori, a teatro, cosa dobbiamo capire?
Dovete capire che qualsiasi comunicazione è destinata a fallire, sempre, perché con una parte di noi qualsiasi cosa l’altro dica o faccia noi l’abbiamo capita da subito a un livello più elementare ed efficace, subliminale. Noi intuiamo sempre senza confessarcelo la verità dell’altro, non la verità operativa o di ruolo, ma quella emozionale. E’ questa verità emozionale che conta a teatro; a teatro ci si può nascondere, forse, ma mai mentire. Ecco perché il grande attore va verso la spoliazione, il famoso denudamento consegnato da tanta retorica inutile. Nel momento in cui mi accingo a fare una radicale violenza contro il pubblico, in quello stesso momento gli consegno la mia massima vulnerabilità con una fiducia radicale. La fiducia paradossale da consegnare all’istante teatrale è la fiducia in una verità istantanea, dove il livello ‘subliminale’ di comprensione è sempre terrificantemente esatto.
L’energia del pubblico è come un gigantesco trampolino, a partire dal quale si possono fare i tuffi più clamorosi, nella più grande varietà di tempi: è proprio da questo immediato – dove un’ansia terribile minaccia sempre di vanificare l’azione -, è da questa imminenza radicale che improvvisamente si può trovare un elemento radicalmente introverso (senza essersi costruiti barriere precedenti, percorsi, quarte pareti, recinti tecnologici).
Un attore, quindi, deve “vampirizzare” il proprio pubblico, esattamente come fosse un grande performer, alla Mick Jagger o Prince?
Sì. Grotowski mi sembra dica da qualche parte che Mick Jagger, pur senza partitura, è un artista di teatro consapevole perché sa quello che fa: come un vampiro attizza il pubblico e poi, sempre come un vampiro, sussume e metabolizza quest’energia di feedback; soltanto che l’energia che torna indietro a Jagger non è un vero immediato (con tutto il rispetto per il fascino e la tèchne, indubbia, di Jagger), già Jagger stesso è un segno istituzionalmente condiviso, completamente noto ai fedeli. Per quanto bravo possa essere a far salire l’energia, quello che gli torna indietro è troppo meccanicamente ovvio, assomiglia a convenzioni sociali dove l’energia di feedback è già prevista nel rituale, i codici di condivisione tra emittente e ricevente sono massimi, direi ecclesiastici: in un certo senso la star è una sorta di sacerdote pienamente (troppo) legittimato.
Ben diverso è il caso di chi parta da codici condivisi molto bassi, sia perfettamente sconosciuto, senza alcun potere istituzionale-iconico e voglia suscitare non esattamente gli stessi entusiasmi ma la stessa mole di energia. Il tipo di immediato rinvenuto sarà allora di natura ben diversa e molto più difficile da cavalcare o da trasformare; sarà quindi un vero immediato, uno sconcerto terrificante.
Il pubblico preferenzialmente dovrebbe essere ravvicinato, come accade nei piccoli teatri, perché questo sisma a doppia risposta si attui, perché ci sia un’oscillazione energetica. Questa sarà garantita anche dalla figura ravvicinata che potrà essere osservata ipnoticamente da vicino, permettendo di soffermarsi su ogni singolo movimento e dettaglio. Mi sono occupato di percezione cinematografica, ho scritto anche saggi convulsi su certo cinema eteroclito: quello che davvero mi interessava l’ho portato sulla scena; adesso sarebbe troppo lungo spiegare come si possa far valere un dettaglio, far spingere lo sguardo dove si vuole che vada. Diciamo che l’ho scoperto un giorno in un grande teatro all’italiana dove, invitato a leggere un testo di Poe, “Il caso Waldemar”, non scelto da me, ho improvvisamente capito che potevo tenere ferma l’attenzione del pubblico semplicemente mettendo in evidenza cosa facessi – come un prestidigitatore qualsiasi -, con un foglio in mano, spingendomi sino all’assurdo, fuori di ogni verosimiglianza con la situazione, rimanendo in scena 70 minuti, e da un certo momento in avanti addirittura senza testo e davanti a un pubblico tipicamente borghese. Non credo che sia un caso che il testo di Poe parli appunto del mesmerismo e di certe mimiche facciali introverse.
Sembrerebbe quasi che ci sia una polemica con i tuoi maestri…
No. Credo di poter capire oggi un apologo di Lindh, quando, parlando della ricerca teatrale, diceva che è come tuffarsi da un’isola e poi cominciare a nuotare verso il largo; ad un certo punto ci si gira e l’isola non è più lì. Si rimane soli con le proprie scoperte, si tratta di articolarle senza più l’avallo dei maestri (anche se lui poi diceva di tornare incessantemente a Decroux).
Quindi tu, a un certo punto, hai gettato via tutto quello che hai imparato e sei andato oltre?
Davvero ho rinunciato a un percorso autonomo dell’attore davanti al pubblico? No, non riuscirei a fare quello che faccio se non mi ascoltassi, anche senza un timing e una drammaturgia pregressa. Ho imparato ad ascoltarmi in maniera totale, mi abbandono e mi ascolto in questa doppia freccia che mi attraversa, muovo energia verso la sala sulla base di una drammaturgia di impulsi che coltivo, mi muovo in bilico su drammaturgia invisibile ed esigua ma sufficiente, e l’energia che ricevo dalla sala passa di nuovo attraverso un mio filtro. Che tutto questo accada istantaneamente e inavvertitamente, che io sia a mio agio (nel giusto ritmo) anche nello spalancarsi caotico di tempi incredibilmente morti, poco importa. Il problema è un altro ed è sempre quello delle intenzioni, intenzioni che discendono da un sentire, quella che si potrebbe chiamare in modo roboante una “poetica”.
Se è vero, come diceva Grotowski, che ogni tecnica esprime una metafisica, allora è per questo che ho gettato via tutto quello che ho imparato e sono andato verso questo mio paradossale ‘pubblicocentrismo’. E’ sempre difficile “sapersi”, perché ci si “sa” sempre in relazione a qualcun altro, fosse pure in via negativa.
Ho perso sempre più fiducia che l’atto teatrale sia un rito collettivo di ricerca di universali, quali che siano gli archetipi del teatro antropologico o i cliché sociali di una certa avant-garde. Sempre più il mio è stato un “ateismo” integrale, una sorte di solitudine da qualsiasi principio, e allora sono tornato ad Artaud, all’Artaud post-Rodez più che a quello del “Il Teatro e il suo Doppio”, a quello della conferenza al Vieux-Colombier più che a quello dei Cenci. Artaud che gestisce questo “sapore di morte”, morte come termine di ogni comunanza, di ogni progettualità metafisica, distruzione di ogni articolazione concettuale. E infine la morte come immanenza, come scioglimento della singolarità, non in un tutto ma in un qui senza confronti. Resta questa terrificante intensità e una fugacità meravigliosa in questa catastrofe che non cade in grembo di nessuna consolazione. Qualcosa come la passante che Baudelaire incontra sui boulevard e non amerà mai compiutamente: l’amore è solo in uno sguardo veloce, e proprio per questo ammaliante ed enigmatico. Tutto ciò che scorre via si fa presente per un attimo e non ritorna; non certo la morte come fascino funerario o fatto meramente meccanico-biologistico. Imminenza-immanenza di uno svanire, insomma.
Ma essere vicini all’Artaud del Vieux-Colombier equivale appunto a essere, a nuotare in alto mare, a non avere più maestri, significa la singolarità.
In questo senso quell’Artaud può essere solo un maestro paradossale che ha vietato qualsiasi ricalco della sua esperienza, che preferisce un suo passo sulla terra a tutti gli stupri dell’eternità. Essere vicini a questo Artaud è sapersi singoli, senza illusioni e senza speranze, significa trovarsi a inventare senza alcuna illusione negli universali. Credo che un altro paradossale ed eteroclito allievo di Artaud, Carmelo Bene, attore ben più grande di me, pensasse più o meno le stesse cose.
Non mi dire che fai teatro esclusivamente per te stesso?
Mi ricordo una conversazione con Florinda Cambrìa in cui, non riuscendo a spiegarmi meglio, dicevo di volere l’intensità e, per averla, della mia necessità di trascinarvi il pubblico. “Sì, tu sei onesto, ammetti di fare teatro per te e per te solo”. Come dire che forse il teatro doveva essere altro.
Perché? Il teatro non è anche altro?
Per me il teatro non è il luogo dei grandi archetipi filosofici o delle grandi politiche, come non è quello degli status sociali. Il mio unico innamoramento va ad una squallida sala qualsiasi dove entrano dieci, venti, cinquanta o cento persone; va ad un miserabile edificio preciso, patetico, e a quei volti: un luogo dove non ci sono oltre, domani, contesti; un luogo che, per un certo lasso di tempo (esploso), può essere solo la radicale immanenza del ‘qui e ora’, senza perché, senza che si possano trovare altri motivi rispetto a quello che davvero viene agito sulla scena e dalla scena, fino a comprendere tutta la sala ossia tutti gli attori.
Dire questo non credo coincida con il voler fare teatro solo per sé, semmai volere la singolarità davanti al pubblico è accedere a una dimensione di paradosso, ma ancora spiegabile, con immensa fatica da parte mia, non avendo reali competenze filosofiche o teoriche. Tanto che non credo di esserci riuscito neppure ora. Io sono solo un attore.
Giusto,in qualche modo vale la stessa cosa anche nella pittura o nel mio modo di operare ,ho sempre condiviso non solo per amordelBene,queste sensazioni ma quell’espression pura che fa in modo che l’atto diventisubito senza filtri metafisicaassenza del non concetto,dell’onestà di fare quelche si può ,quell’atto gesto che sempre l’arte porta che immediatmente diventa classico.che è’ o è già stato,insomma,una generosità di vita.