“La montagna è imprendibile perché assoluta e sempre pronta a franare,
dunque irresistibile per il corpo del danzatore così come per quello dello scalatore“.
Oltre alla postura del danzatore (e del coreografo), “Parete Nord” di Michele Di Stefano è capace di smascherare quella dell’osservatore.
Il lavoro, che ha debuttato del 2018 a Torinodanza sbarcando poi, “anteCovid”, alla Triennale di Milano e a Fabbrica Europa, è passato in prima romana al Teatro Argentina il 15 e il 16 maggio.
Si presenta nettamente diviso in due parti, tanto nettamente da poter parlare, col placet della locandina, di un “Parete Nord I” e un “Parete Nord II”, dittico che gioca le sue due parti quasi in contrapposizione.
La prima si svolge su una scena vuota, e vede in opera sei danzatori, mentre la seconda mostra un palco preparato, su cui si aggirano, come vedremo, delle presenze misteriose. Quanto la prima è affollata di corpi, tanto la seconda è deserta; quanto la prima è concitata, tanto la seconda è ieratica.
Ma soprattutto, la prima obbliga lo spettatore all’attivazione di una postura di decriptazione attiva, analitica, alla ricerca, come sempre in un testo “a programma”, di calchi, metafore, correlativi che rimandino al mondo della montagna, dell’altitudine, dell’arrampicata o della scalata; la seconda parte, all’opposto, nella sua sospensione, nell’asciugarsi delle presenze e dei significanti in scena (che sono tali per la loro semplice presenza, tendenti all’ostensione), spinge chi guarda a lasciarsi avvolgere dall’ambiente, in una sorta di passiva compartecipazione, in cui gli occhi pigramente – ma anche beatamente, perché bello è il guardare quella ricostruzione d’altura – seguono il lento svolgersi delle pigre azioni sul palco.
Dunque: in quella che abbiamo chiamato “Parete Nord I”, i danzatori in costumi neri, sotto le luci continuamente mutevoli di Giulia Broggi (queste sì, mimetiche degli improvvisi tagli, dei rosa e dei ghiacci d’alta quota), sono animati da un’instancabile cinèsi, scene di gruppo e brevi assoli. Le qualità gestuali sono incisive, prive di ammorbidimenti, caratterizzate dall’ampio raggio di proiezione di corpo e arti, dalla tendenza a considerare il palco come un luogo di arrivo e di ripartenza, di presa e sgancio, mai di prolungata permanenza. Si entra e, poco dopo, si esce.
Alcuni di quei gesti, poi, tendono a concretizzarsi in motivi o ritornelli, che chiedono di essere messi in relazione tra loro, di essere considerati come frammenti di senso. Un esempio è l’uscita di scena, che per tutti è un guadagnare le quinte laterali muovendosi petto al pubblico, parallelamente alla linea della ribalta.
Ogni naturalismo del gesto, ogni smaccato didascalismo sarebbe difficile da rintracciare. È anche questo uno degli “appigli” che lo spettatore analitico ansiosamente – ma un po’ vergognosamente – ricerca. E ci si chiede, guardando la scena: è questo un corpo in lenta, lentissima, caduta? È un distendersi alla riconquista della verticale, di un equilibrio smarrito, una sua ripresa attraverso una riconfigurazione delle “quote” del corpo, per cui i piedi si ritrovano più in alto di una mano o di una spalla, come quando ci si aggrappa? Questo, disteso sul gomito, è un corpo che riposa, come in una vecchia foto in bianco e nero, dopo la fatica del percorso?
Talvolta, poi, un sipario nero cala sul boccascena, lasciando visibili solo le gambe, i polpacci dei performer: nelle loro apertura a compasso, stanno mimando un susseguirsi di cime, di nuovo in una foto panoramica? O ci restituiscono il punto di vista di chi, in cordata, arrampichi in seconda posizione?
“Parete Nord II”, al contrario, sostenuta da una musica (sempre di Lorenzo Bianchi Hoesch) che si assottiglia fino a privarsi di ogni richiamo ritmico, è per lo più sgombra di corpi, e suggerisce allo spettatore quell’altra modalità, quella di una percezione che assorbe e non chiede a sé stessa di penetrare, di contrattaccare con l’analisi – come suggeriva il Pagliarani critico.
L’atmosfera, nel duplice senso letterale e metaforico, è ora rarefatta, e quattro entità aeree, esseri alieni, sorta di genius loci con lo stesso trascurabile peso dell’aria (o cadaveri, spettri di palloni meteorologici?) la attraversano.
Poi uno o due di essi si allontanano verso la graticcia, fino allo sfogarsi da lassù, smaccato e teatrale, di una tramoggia di neve, che tutto silenzia e ottunde, ancor di più.
Da un lato, intanto, un rigonfiamento del palco che di tanto in tanto tremola o respira si rivela essere una tenda da campo, scura di colore. Nel finale, da essa esce un vecchio (ha il corpo di Philippe Barbut) che solo, in mutande, sventola una bandierina, di quelle che si pongono a conquista di una vetta.
Un solo ultimo esperimento: se scambiassimo gli approcci alle due parti del lavoro?
Se lo spettatore adoperasse il sistema della reazione semantizzante a “Parete Nord II”, e quello parasimpatico della rilassatezza ricettiva a “Parete Nord I”?
Nella prima parte saremmo nell’irretimento di fronte al mutare delle forme e delle direzioni delle cose, delle entità (un po’ come poteva succedere con “Bermudas”); nella seconda al cospetto di un incommensurabile, fatto di non-materialità, a petto del quale l’uomo e i suoi strumenti (una fragile tenda, una bandierina, un corpo di vecchio con barba) scompaiono nella vergogna della piccolezza.
Nei due pannelli del dittico, al confronto con la vastità, una ribadita dichiarazione di soggezione.
Parete nord
coreografia Michele Di Stefano
musica Lorenzo Bianchi Hoesch
con Philippe Barbut, Biagio Caravano, Francesco Saverio Cavaliere, Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Laura Scarpini, Francesca Ugolini
disegno luci e direzione tecnica Giulia Broggi
ph Andrea Macchia
Firefly, 2018, courtesy First Rose
abiti Matteo Thiela
direttore di scena Davide Clementi
management Carlotta Garlanda
produzione mk 2018 in coproduzione con Torinodanza festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale nell’ambito del progetto “Corpo Links Cluster”, sostenuto dal Programma di Cooperazione PC INTERREG V A – Italia-Francia (ALCOTRA 2014-2020)
con il sostegno del MIBAC
in collaborazione con Comune di Bardonecchia
ringraziamenti Alberto Re e Alessandra Sini
distribuzione Jean François Mathieu
durata: 45′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 15 maggio 2021