Alla Triennale di Milano l’apertura al pubblico della seconda tappa del progetto formativo condotto insieme a Silvia Rampelli
Triennale di Milano, un lunedì di dicembre. Incontriamo Romeo Castellucci tra una sessione e l’altra del ciclo di incontri de “La quinta parete”, seconda tappa del progetto formativo ideato da Castellucci per la Triennale e dedicato alle arti della scena, un percorso di diciassette giornate di studio iniziato a metà novembre e guidato da lui stesso insieme alla filosofa, performer e coreografa Silvia Rampelli.
Al progetto hanno preso parte quindici professionisti e studenti (nel campo delle belle arti, design, architettura, grafica, fotografia, video, arti performative) e una dramaturg, selezionati tramite un bando pubblico. Il 21 dicembre, in un doppio appuntamento, l’evento di apertura al pubblico.
So che detesti fare le interviste…
Parlare, per un artista, è un atto di debolezza. Sempre meglio tacere. In questo caso assumo di essere debole, perciò eccomi qui. Ma in questo contesto, devo dire, risulta più accettabile perché parliamo di 17 giornate di lavoro, raccolte dal titolo “La quinta parete”. Non si tratta di un’opera bensì di un fatto antropologico, un incontro tra persone sconosciute tra loro e unite dal “fare” e dal libro degli Esercizi che ci siamo dati.
La vivi come una costrizione?
Le opere parlano per quello che sono, non c’è bisogno di introdurle. Non c’è una visione lecita rispetto a un’unica oggettività. Lo sguardo dello spettatore vale più della “visione” dell’artista. Il suo corpo è la via, non le intenzioni dell’artista che, quando rivelate, dimostrano il vero peccato mortale tra noi: la naïveté.
Parliamo allora di formazione e di Quinta Parete.
A dire il vero, tecnicamente parlando, non si tratta di formazione: non è infatti una scuola di trasmissione, qui non si insegnano i segreti del mestiere o i metodi che mettono al riparo l’atto creativo. Si tratta piuttosto di smantellare alcune strutture di retorica certezza. Scavare, trovare l’atto, contra agere, cioè andare in senso inverso a ciò che sembra indicare la misura.
Hai sempre sostenuto che i giovani debbano fare quello che vogliono.
E’ così. Quello che vogliono, quello che possono. La parola “giovani” è però problematica, perché ammantata da un certo “uso”, da un mercato, da un certo paternalismo. Sono persone quelle a cui mi rivolgo. A Milano si è condiviso un tempo comune con quindici di queste persone, per diciassette giornate; un’esperienza in cui si eseguivano esercizi che avevano come scopo quello di preparare una forma nella via più breve possibile. Siamo alla seconda edizione. Il titolo cambia. L’anno scorso era “Nascondere”, quest’anno “La quinta parete”.
Devo subito dire che la mia più felice intuizione è stata quella di affidare a Silvia Rampelli la direzione del lavoro sul libro degli Esercizi. Io ho seguito la sua linea, le sue indicazioni. Il suo sguardo, il suo pensiero, la sua filosofia, la sua pratica sono, nel contesto dell’arte scenica contemporanea, le più acute e acuminate della nostra epoca. E’ fondamentale il suo contributo, la sua visione e la sua capacità di lettura delle cose che i partecipanti andavano mostrando a loro stessi e sul palco.
Ha deciso tu di dar vita a questi incontri?
Sì, è un modo di penetrare nel tessuto della città di Milano, un aspetto “civile” del mio lavoro – appellativo che normalmente rigetto. Nel mio teatro niente è “civile” perché allude all’abbandono, alla divisione e alla solitudine. Le strutture politiche operanti esistono, ma a patto che lavorino dal profondo, là dove non si danno a vedere. Queste giornate erano mosse su un piano civile: la città, 15 artisti disposti in cerchio, un luogo, la Triennale.
Come hai selezionato i partecipanti?
Ho operato una selezione senza tenere in conto dei curricula, delle fotografie, della sapienza, né dell’età, sesso, genere, orientamento. Ho chiesto a queste persone di scrivere alcune parole su un foglio perché, nonostante tutto, è attraverso il linguaggio che si rivela una attitudine, una proporzione alla cosa.
Il dramaturg invece che ruolo ha?
E’ parte consustanziale del lavoro di creazione, una figura di primaria importanza nella mia pratica, soprattutto quando si tratta di abbordare l’archivio della tradizione letteraria e musicale. Ho la immensa fortuna di poter lavorare con Piersandra Di Matteo, con la quale disinnesco la scrittura canonica per preparare la venuta dell’atto. Il dramaturg riveste la funzione dell’Avversario, colui che rivela la contraddizione, che fa odiare il nostro operato proprio dove sembra saldo. Nelle giornate de “La quinta parete” dunque, oltre ai partecipanti, è stata contemplata questa figura. Il dramatug, in questo contesto, avrà la funzione di seguire le tracce lasciate dal lavoro, restituendo in forma di scrittura una memoria.
Che poi è una figura antica…
Credo si tratti di una figura che nasce nel contesto del teatro tedesco del novecento. Con il dramatug si condivide uno studio filologico, una ricerca delle fonti, cercando i punti nevralgici della filosofia compositiva di un autore. Il dramaturg è la figura che getta nella fiamma della critica la forma, prima dello schianto dell’apertura del sipario.
Che cos’è la quinta parete?
Vi è un’allusione alla quarta parete che il teatro borghese ha dissolto, permettendoci di vedere lo spaccato di una casa. Abolendo la quarta parete ne rimangono tre. Ma ecco che, inaspettatamente, si è dato accesso a un’ulteriore parete, la quinta, nascosta nell’ombra e che coincide con il corpo dello spettatore. E’ la parte in cui le immagini si imprimono e acquistano significato. Lo sguardo dello spettatore – la quinta parete – rende viva l’immagine. Solo attraverso il mio corpo (di spettatore), posso restituire un senso a ciò che vedo.
State lavorando ad una restituzione, si può chiamare così?
Sì, ci sarà una profanazione degli atti che sono stati concepiti dai partecipanti. Solo attraverso lo sguardo dell’altro la cosa si rivela a colui che l’ha concepita. La “restituzione” è, semmai, quella degli spettatori. Per i partecipanti a queste giornate è essenziale capire in quale campo viene gettata la cosa. Il pubblico presente fa inconsapevolmente parte degli Esercizi.
Perché parli di profanazione?
Perché è una parola bella. La profanazione è gettare a terra il tesoro del Tempio, far uscire dall’incubazione una forma. E’ una apertura violentemente necessaria, cruciale all’atto di creazione.
Anni fa dicevi che in Italia certe cose non passano, certi contenuti sono difficili da far vivere. Oggi sei Grand Invité qui in Triennale. Come sta andando quest’esperienza?
Triennale è un vero luogo di lavoro (e anche queste giornate lo dimostrano) in cui si possono fare cose che in altri contesti sarebbe difficili o addirittura impossibile pensare. Qui c’è una cura, qui è possibile immaginare mondi. La natura, la storia di questo luogo fanno sì che diversi linguaggi possano convergere, ma in modo netto, separato. Triennale è un luogo “disponibile”. I luoghi sono fatti anche di persone che, in questo caso, voglio definire compagni di strada.
E’ una strada piuttosto lunga, visto che proseguirà per i prossimi due anni. Hai già in mente cosa fare qui in futuro?
E’ un percorso che nutre se stesso, ci sono progetti che verranno presentati e dei quali ancora non so dire. Certamente la Triennale è il luogo privilegiato per mostrare i miei spettacoli in Italia.
Il teatro di Romeo Castellucci. Scritti e interviste
di Jean-Louis Perrier
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