Abbiamo parlato, in altre pagine di KLP, di Spiro Scimone e Francesco Sframeli e del loro essere al centro della rinascita di una drammaturgia italiana che nessuno si aspettava.
Quando la compagnia Scimone Sframeli compie ben quindici anni, e al termine della monografia di scena a loro dedicata dall’ETI al Teatro Valle di Roma, queste righe vogliono prendere la forma di una riflessione. Perché forse sarebbe troppo facile parlar bene, anzi benissimo, di questi due artigiani della scena. Del loro invidiabile equilibrio, della loro capacità unica di farsi muro di gomma l’uno per l’altro, rimbalzandosi energie in totale entropia, senza nessuna dispersione. Sarebbe troppo facile anche dire che tutto questo, unito all’umiltà di chi, dichiarando qualche ispirazione, uno stile se l’è costruito da solo, meriterebbe un posto molto più prestigioso nei cartelloni del teatro italiano. E invece, come nella scienza, anche nell’arte certi cervelli sono costretti a fuggire all’estero. E ora l’austera Comédie Française – ma non solo – apre loro le porte.
Tolti i primi due lavori (“Nunzio” e “Bar”), dei quali è stato offerto un assaggio anche alla serata-spettacolo dello scorso 23 novembre a “Il teatro in diretta” in onda su RadioTre, abbiamo poi partecipato ad un’autentica maratona: al Valle siamo stati spettatori di un’opera completa, quella composta da “Pali”, “La festa”, “Il cortile” e “La busta”. Il primo a debuttare è anche il più recente, un affresco apocalittico che illustra la difficile vita “al di sopra della merda quotidiana”. Gli altri tre, rispettivamente il terzo, il quarto e il quinto lavoro della compagnia, hanno offerto la dimostrazione esaustiva della crescita di un linguaggio, del perfezionarsi di certi temi, di certi codici. “La festa” riflette – sempre a proprio modo – sulla famiglia e il sud-Italia, “Il cortile” parte come una sorta di omaggio a Samuel Beckett per poi giocare con il continuo allontanarsi dal maestro, in tanti piccoli particolari che personalizzano struttura e rapporto palco-platea. “La busta” è la parabola di un inferno burocratico, spirito onirico e angosciante condensato in un nevrotico sorriso. Rigoroso nella messinscena, affilato nei messaggi. Con qualche strizzata d’occhio a Brecht, ma soprattutto grandi semplicità e freschezza.
Qualche anno fa Franco Cordelli, critico teatrale e scrittore, faceva notare l’importanza, nella scrittura di Spiro Scimone, dell’uso dell’anafora, figura retorica che consiste nella ripetizione di una o più parole o più all’inizio di frasi o di versi consecutivi, per sottolineare un’immagine o un concetto. È vero, c’è senz’altro questo, c’è un peso specifico accordato alle parole, ancor prima che al loro significato. La densità del parlato è data dalle ripetizioni. La speculazione intellettuale, il rovello filosofico, le loro risultanti, tutto tenuto fuori a forza dal suono dei dialoghi. Detta così sembra una frase astratta, eppure, a ben guardare, somiglia sempre di più a una tecnica.
Vedere quattro opere di Scimone e Sframeli a distanza di pochi giorni l’una dall’altra crea come effetto una sorta di macro-anafora, nella quale la ripetizione delle stesse parole all’inizio di più frasi si trasforma nella ripetizione delle stesse tecniche in più spettacoli. Avere la fortuna di assistere all’intero corpus di opere di un gruppo di artisti che lavora insieme da diversi anni significa anche forzarsi a trarre da quella fortuna il maggior numero di vantaggi. Come se avessimo l’opportunità di mandare a rallentatore i movimenti di un illusionista per scoprire dove sta il trucco. Il bravo illusionista non rivelerebbe mai i propri segreti, non lo fanno nemmeno loro. La reiterazione genera solo il rallentamento del gesto, che basta a farci intuire che un trucco c’è, ma che non lo scopriremo mai. Su questo si basa il prestigio.
Nel momento esatto in cui, da spettatore o da critico, si isola – come in laboratorio si fa con virus o batteri – un espediente, ecco che la scrittura dei dialoghi e, ancor più, l’interpretazione degli attori arriva a disfare il puzzle. Come se qualcuno alitasse continuamente sul vetro dal quale cerchiamo di guardare.
A uno degli spettacoli (“La busta”) mi capita di andare con mia madre la quale, sulla via del ritorno, in mezzo a molti apprezzamenti, prova ad avanzare il parere che tutto sommato si tratta di un “teatro classico, tradizionale: a differenza di tanto altro teatro sperimentale molto meno narrativo, molto più astratto, loro hanno un testo fisso, delle battute, dei personaggi”. Non solo questo non significa sfuggire al termine “sperimentale”, ribatto, la mia impressione è che ci sia un gioco sottilissimo proprio nella creazione di quel testo fisso, di quelle battute, di quei personaggi.
Scimone è un drammaturgo in grado (e sono pochi) di scrivere uno spettacolo completamente doppio. Una vicenda che rimanda in tutto e per tutto a una condizione. Una parabola, appunto. In questo – soprattutto se si parla de “La busta” – torna alla mente il riferimento a Brecht e alla straordinaria magia con cui faceva comparire in scena volti ed epoche che solleticavano direttamente le categorie del pensiero dell’attualità. Stimolare il mondo presente attraverso la creazione di un mondo altro è, almeno stavolta, l’essenza della drammaturgia.
Quel gioco sottile di cui ci sentiamo preda non è tuttavia limitato alla scrittura, si estende anche alla messinscena. I due attori messinesi hanno scelto e si sono fatti scegliere da registi come Carlo Cecchi (“Nunzio”), Gianfelice Imparato (“La festa”), Valerio Binasco (“Bar”, “Il cortile”), ma sterzano adesso verso l’autogestione (“La busta” e “Pali” portano la firma di Francesco Sframeli). Una ruota dell’ingranaggio ha mosso l’altra, si sta passando oltre, si va sempre di più verso la creazione di quell’universo personale all’interno del quale la forza vitale del testo di Scimone (che pulsa nelle mani di qualsiasi regista, sia italiano o straniero) anima la straordinaria eccezione rappresentata da uno stile recitativo maturo e originale in tutto e per tutto.
Sì, perché anche l’interpretazione è firmata. Insieme ai bravissimi Gianluca Cesale e Salvatore Arena, Scimone e Sframeli compongono un guscio completo. Anche e soprattutto dopo l’abbandono del dialetto (dal terzo lavoro in poi) sopravvive il suono di un “recitar cantando”, fatto di arzigogoli fonetici che chiudono le frasi tutte allo stesso modo, ipnotizzando.
“Pali”, l’opera più recente, rappresenta, come è facile immaginare, un punto di arrivo, seppure temporaneo. La ricerca dei quattro personaggi di un senso millenaristico a quest’apocalisse “di merda” non è mai condotta insieme, ciascuno vive quell’esistenza limite per conto proprio, in attesa ciascuno del proprio segno, che resterà privato. Se c’è una salvezza – e probabilmente non c’è – quella salvezza sarà privata: alla fine del cammino, quando anche la lotta fosse vissuta insieme, remando sulla stessa barca, ad aver la meglio sarà sempre l’egoismo, sempre la diffidenza. “Pali” appare come il punto d’incontro dell’onirismo sgangherato de “Il cortile” e del pragmatismo atroce de “La busta”. La raccolta di una provocazione. Nonostante ci si abbandoni alla risata sincera, le speranze restano a zero. Perché qualcosa viene costantemente sottratto a un passo dalla sua risoluzione.
Quando si ha a che fare con Scimone e Sframeli si ha a che fare con la sottrazione. La sottrazione di frasi realmente compiute costringe il tema a rarefarsi, si costringono con esso tutte le sfumature di una riflessione che perde angoli poco a poco. Come scrivendo a matita. Prima o poi viene via. Le frasi non restano, non restano gli accenti. Inciampa, la dizione, nel nodo nascosto del parlare dialettale.
Il movimento è terreno, scelto e posizionato esattamente dove quella sottrazione viene applicata, generando assenza; stretto, il senso di quelle frasi in dissolvenza, nello stesso nodo in cui inciampa la dizione: la parola storpiata. La parola tronca, la cadenza, il ricordo di una lingua embrionale, di rapporti secolari contratti in pochi respiri. È tutta, tutta materia in dissolvenza.
PALI
di Spiro Scimone
regia: Francesco Sframeli
con: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Salvatore Arena, Gianluca Cesale
scene e costumi: Lino Fiorito
disegno luci: Beatrice Ficalbi
produzione: compagnia Scimone Sframeli in collaborazione con Asti Teatro 31
durata: 45′
applausi del pubblico: 4’ 05’’
LA FESTA
di Spiro Scimone
(Premio Candoni Arta Terme per la nuova drammaturgia XXVII ed.)
con: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale
regia: Gianfelice Imparato
scene: Sergio Tramonti
musiche: Patrizio Trampetti
regista assistente: Leonardo Pischedda
organizzazione: Giovanni Scimone
distribuzione a cura di associazione cadmo
in collaborazione con Fondazione Orestiadi Gibellina
durata: 50’
applausi del pubblico: 2’ 15’’
IL CORTILE
di Spiro Scimone
con: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale
scene e costumi: Titina Maselli
regia: Valerio Binasco
coproduzione: Kunsten Festival des Arts de Bruxelles, Festival d’Automne à Paris, Théâtre Garonne de Toulouse, Fondazione Orestiadi di Gibellina
durata: 55’
applausi del pubblico: 3’ 18’’
LA BUSTA
di Spiro Scimone
con: Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Gianluca Cesale, Salvatore Arena
scene e costumi: Barbara Bessi
disegno luci: Beatrice Ficalbi
regia: Francesco Sframeli
coproduzione: Teatro di Messina, AstiTeatro 28
durata: 1 h 05’
applausi del pubblico: 4’ 22’’