Tandy. Il miracolo nero di Angélica Liddell

Tandy (photo: © Christopher Hewitt)
Tandy (photo: © Christopher Hewitt)
Tandy (photo: © Christopher Hewitt)

Non una sola resurrezione è possibile. Nessuna.
O forse infinite e molteplici?

Per la prima volta a Roma, Angélica Liddell porta con sé la sua pratica radicale di organizzazione vorticosa di un caos, tanto intimo quanto universale: quello che dal 1993 attraversa le creazioni di Atra Bilis Teatro, la compagnia fondata in Spagna con Gumersindo Puche.

“Tandy”, presentato al Romaeuropa Festival, parte da un racconto di Sherwood Anderson, una storia del MidWest americano del primo post guerra. Un alcolizzato alla ricerca di redenzione e di disintossicazione si innamora di una bambina: un amore convenzionalmente impossibile, scomodo, fuor di logica.

Sul fondale è indicato fin dall’inizio – una scritta luminosa montata su una sorta di trabattello – che ci sarà un miracolo: “There will be miracles”. Due angeli dorati appesi ai lati e un cane di legno, laccato oro, coperto da un velo trasparente, più vicino al proscenio, trasformano le suggestioni di Anderson in atmosfera cupa, gravida di presagi.

Entrano in tanti, in scena, all’inizio: silenti, sommessi, in abiti ordinari, tutti in attesa del miracolo. Uno di loro cade a terra, rimane riverso a testa in giù. Gli altri gli si avvicinano, lo onorano con bottiglie d’alcolici che posano ai lati del suo corpo-spoglia. E poi fiori dentro le bottiglie.

Il Cristo in questione risorge poco dopo, e dichiara che non è stato solo l’alcol ad ucciderlo, ma la volontà insopprimibile d’amare. E d’essere amato da quella bambina (Tandy) che in scena è una sorta di alter ego della Liddell. Stesso abito – una veste bianca che ricorda le internate manicomiali o le migliori tra le sante – e stesso compito, dirigere le azioni degli altri: “Fermo, muori, risorgi!” intima ripetutamente al Cristo che da lei vorrebbe l’amore, consumando il frangente di massima verità meta-linguistica dell’opera.

Con una scrittura scenica che, andando alle viscere dell’attualità, ne affronta l’in(di)gestibilità, grazie a una forte e decisa dialettica tra passato e presente, tra un linguaggio e l’altro, in una maniera violenta e ironica, tra liturgia e spinte dionisiache, nel prosieguo dello spettacolo la metafora viene traslata e trasfigurata per eccesso: quell’amore è paragonabile al sentimento che ogni fedele ha (perso) nel suo Dio?

Il legame con la storia si assottiglia, cresce quella necessità – che Angélica Liddell confessa in più interviste – di brutalità espressiva come risposta all’insulto della constatazione dell’infinita capacità di umiliazione dell’essere umano.

Se la parola è demandata alla registrazione o affidata alla voce della bambina, “Tandy” si nutre di una visionaria multimedialità che ha le sue radici nelle interferenze celesti che attraversano la performance, dal “Lamento della Ninfa” di Monteverdi, eseguito dal vivo, a quei rimandi (nella cura visiva, nel décor e nella drammaturgia della luce) alla pittura spagnola del ‘600, intrisa di una religiosità debordante, intensa, chiaroscurale.
Una predominanza di giallo e nero che lascia largo spazio per le tenebre, e il venire alla luce è sempre manifestazione del corpo come epifania, come testimone, segno di insubordinazione al corpo malato della società, esigenza di rottura violenta, sofferta, dichiarata, alla scomodità di stare al mondo (“Per me era amore, ma gli assassini della poesia la chiamano psicosi”).

Quando la felicità finisce inizia l’estasi. Tra rito sacro, funereo, esoterico, e dissacrante scompaginamento dell’assetto equilibrato del rapporto uomo-fede-società, Tandy intima di risorgere lontano dalle convenzioni, in un ascetismo delirante che confuta la soggezione della carne allo spirito, problematizzando quanto sia soggettiva e eterodiretta l’idea di infermità. E quella di crisi.
La rincorsa vana alla speranza della resurrezione, evanescente patologia dei nostri tempi, è risolta optando per il sacrificio del senso, per la surrealtà più eclatante e cruda, tra Artaud e Dalì.

È forse Gesù il miglior amico dell’uomo? O si tratta ancora del cucciolo del cane che risorge alla fine, al centro della scena?

TANDY
opera ispirata al romanzo Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson
Angélica Liddell / Atra Bilis Teatro
con: Fabián Augusto Gómez Bohórquez, Lola Jiménez, Angélica Liddell e Sindo Puche
ensemble: Paola Ronchetti soprano, Andrés Montilla tenore, Daniele Pellegrini tenore, Pierpaolo Cascioli basso, Luigi Polsini viola da gamba, Simone Colavecchi tiorba, Gianluca Ruggeri maestro concertatore
set design, costumi e regia: Angélica Liddell
testi Sherwood Anderson, Angélica Liddell
traduzione Winesburg, Ohio Miguel Temprano García, © 2009 by Quaderns Crema, S.A.U. tutti i diritti riservati
scenografia: Trasto Decorados
luci Carlos Marquerie
suono Antonio Navarro
tecnico luci Octavio Gómez
direttore tecnico Marc Bartoló
direttore di palco África Rodríguez
produzione e logistica Mamen Adeva
direttore di produzione Gumersindo Puche
prodotto da Iaquinandi, S.L
realizzato da Romaeuropa Festival 2014 in corealizzazione con Teatro di Roma
co-prodotto da Berliner Festspiele e Temporada Alta-Festival de Tardor de Catalunya Girona/Salt 2014
con il supporto di Comunidad de Madrid e Ministerio de Educación, Cultura y Deporte – INAEM
con la collaborazione di Teatros del Canal (Madrid)

durata: 60′
applausi del pubblico: 1′ 30”

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 10 ottobre 2014
Prima nazionale

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