Presi armi e bagagli, la compagnia bolognese Teatrino Clandestino, fondata nel 1989 da Pietro Babina e Fiorenza Menni – che attualmente la dirige da sola –, ha trascorso a Roma la settimana tra il 3 e l’8 maggio, portando con sé due dei progetti a cui attualmente sta lavorando, “Civile” e “Comune Spazio Problematico”.
Il primo appuntamento si è svolto presso Democratica – Scuola di Politica, una struttura che propone corsi di aggiornamento “flash” e incontri con personalità della politica e non solo. Nel ciclo “Raccontare l’Italia” Letizia Bernazza, autrice, tra gli altri, proprio del libro “Frontiere di Teatro Civile” (Editoria & Spettacolo, 2010), ha condotto un incontro con Elena Di Gioia, Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. Di fronte a un troppo magro uditorio c’è stato modo di entrare nel vivo del racconto dei due interessanti progetti della compagnia.
Il primo, Civile, nasce con l’intenzione di intessere rapporti con la comunità. In una situazione contemporanea in cui il teatro tende sempre di più a ghettizzarsi, a ricavare spazi all’interno di una specificità già fin troppo castrante, l’urgenza di un “teatro politico”, diverso da quello ‘che parla di politica’, dovrebbe essere proprio quella di tornare ad essere innanzitutto un teatro civile, che funga da “collante con la comunità”, spiega Menni.
Ed è in questa direzione che la compagnia ha mosso i passi di questa ideazione, ripartendo dal concetto stesso di valore civile che ogni pratica teatrale è obbligata a conservare. La domanda è stata rivolta al mestiere dell’attore: “Che valore civile e politico ha questo lavoro?”.
Si tratta di per sé di una domanda molto complessa, spiega la regista, mentre “tutto ciò che avviene intorno al teatro è e deve restare semplice”. Da qui l’esigenza di partire dal grado zero, andando nei teatri stessi a ricercare il semplice contatto con chi vuole davvero fare teatro.
Tecnicamente il progetto “Civile” ha previsto l’inserimento nel cartellone di vari spazi bolognesi di una serie di monologhi sulla figura dell’attore. Non si tratta di vere e proprie incursioni, perché “non è sul pubblico – specifica Menni – che bisognerebbe intervenire”. Allora la scelta dei luoghi in cui portare i frammenti è frutto di un’attenta mappatura, della costruzione di una planimetria di spazi in cui incastonare queste suggestioni, una “rete di luoghi teatrali” che va dall’Arena del Sole fino a sconfinamenti che invadono “i luoghi dei cittadini”.
Il tutto a partire, concettualmente, da un postulato, quello secondo cui ancora esiste una “plausibilità del dialogo”, un modo per raggiungere davvero gli spettatori. “Avevo bisogno di materiali semplici e vivaci – continua Fiorenza Menni – per esempio qualche domanda sul perché questo o quell’artista avesse deciso di fare teatro”. Si tratta apparentemente di un’esigenza che prende forma “in una fascia d’età molto precoce”: “Chi intuisce che nell’arte può situarsi un’ipotesi di vita lo fa molto presto”.
La scelta di questa forma, alternativa rispetto al vero e proprio spettacolo, nasce dall’esigenza di “suggerire direttamente alle orecchie del pubblico che una possibilità c’è”. La genuinità dei testi dei vari monologhi è garantita, spiega l’autrice, dal “grande privilegio di stare a contatto con gli attori”, che si fanno “messaggeri dei fatti”, portando su di sé quell’esperienza che raccontano.
Diverso per svolgimento eppure analogo per presupposti è il progetto “Comune Spazio Problematico”, presentato per la prima volta a Roma come parte di “OpenOption”, l’esperienza di residenza triennale svolta da Clandestino a Skopje (Macedonia).
Shuto Orizari è l’unica municipalità al mondo ad essere gestita autonomamente dalla comunità rom, che comprende oltre il 75% della popolazione totale. Non si tratta di un sobborgo, tanto meno di un ghetto, è un vero e proprio quartiere, una comunità.
Il germe dell’idea, spiega Andrea Mochi Sismondi, è nell’esigenza di “andare a ricercare un collante in un ambiente in cui non esiste ancora un ordine di potere”. La prima condizione con cui Mochi Sismondi e Menni (compagni nella vita) hanno fatto i conti è quella di uno spaesamento. “Siamo andati con nostro figlio – raccontano – e la sensazione è stata di essere lampeggianti”. In altre parole, l’impressione di arrivare da un “fuori” presuppone automaticamente l’esistenza di un “dentro”. Durante la visita a Shuto Orizari le immagini viste hanno avuto una potenza di attrazione tale da spingere i due a recarsi dal sindaco per farsi accordare il permesso di soggiorno prolungato: qualche mese utile a condurre un intero lavoro dall’interno, per “intercettare la ricettività, la creatività”. Insieme a un gruppo di attori locali hanno lavorato alla ricerca di un metodo “teatrale” per far emergere le logiche della vita rom, che rispecchiano un ordine sociale molto ben definito, tutt’altro che anarchico, nonostante la natura nomade.
I due progetti arrivano a Roma ospitati dall’Angelo Mai (in rappresentanza del quale è stata presente all’incontro Giorgina Pilozzi), spazio assegnato dal Comune a una autogestione che dura ormai da tempo e con ottimi risultati sia nel riscontro del pubblico che nello stato effettivo di supporto alla ricerca teatrale. Mentre una serata intera è stata dedicata alla presentazione di cinque diversi monologhi di “Civile” (quelli di Andrea Alessandro La Bozzetta, Alice Keller, Andrea Mochi Sismondi, Eva Geatti e Laura Pizzirani), due sono state le repliche di “Comune Spazio Problematico”, preceduto anch’esso da un “suggerimento” di Civile negli spazi del foyer/osteria dell’Angelo Mai.
L’ingresso in una sala densa di fumo artificiale presuppone la dimensione di teatralità di questo “Comune Spazio Problematico”. La scena è agita nel mezzo, non si basa su una prospettiva frontale, si offre agli occhi del pubblico da due punti di vista laterali ed è a sua volta divisa in due spazi separati: di là due giovani sposi danzano al suono di una lieve musica, confusi nella nebbia come in un ricordo in bianco e nero, di qua una rete di ferro delimita un confine.
Da una parte, una personalità di spicco della comunità rom, una sorta di portavoce; dall’altra un giovane italiano a caccia di dati e specifiche che confermino il marcio che c’è alla base della situazione geopolitica europea e mondiale, tra associazioni non governative, che sono poi schiave dei governi, e realtà locali che sperperano soldi di diritto destinati all’integrazione sociale in progetti all’apparenza umanitari ma in sostanza ulteriormente ghettizzanti.
Il dialogo tra i due avviene tramite un interprete. Allo scopo teatrale dell’operazione, ancor più dei dati che emergono dalla conversazione – tutto sommato ricavabili anche attraverso un’attenta inchiesta – sono utili invece certi spunti di poetica scenica, come appunto quello della mediazione linguistica in quanto primo ostacolo a una reale comprensione reciproca. Ogni discorso deve passare attraverso una traduzione e non sempre questo è possibile, resta ampio il margine di malinteso, soprattutto se certi termini molto “occidentali” non trovano riscontro in una visione totalmente castrata come quella rom.
Per quanto sia interessante la scelta di usare una lingua inventata (che si basa su sommarie convenzioni), particolare che marca bene il senso stesso di certa incomunicabilità, resta un dubbio relativo alla decisione di Teatrino Clandestino di usare il mezzo teatrale per trasferire al pubblico dei dati politici. Questo anche perché la struttura doppia dello spettacolo (nel frattempo, dall’altra parte del palco, continuano a danzare i due giovani sposi, forse simulacro di una cultura che si manifesta nonostante tutti i tentativi di soffocarla) non è davvero svolta da un punto di vista drammaturgico, e finisce per indebolire il segno pure forte della rappresentazione del colloquio e del confronto come memoria teatrale del momento di ricerca, sperimentato dalla compagnia durante l’esperienza di residenza.