
Sempre un bel festival Vie. Sia per il circuito internazionale di cui fa parte Ert, e che porta nei dieci giorni di festival (dall’8 al 16 ottobre) almeno un paio di grandi produzioni per palcoscenici importanti, sia perché radicata nel territorio nazionale con produzioni e artisti.
Pietro Valenti è un selezionatore che, anche in questa edizione, rivela capacità strategiche nell’essere parte di un tessuto connettivo europeo, ma anche un occhio lunghissimo, che ha consentito di portare a Modena, fra gli altri, il giovane ma notevolissimo talento del performer Daniel Linehan. L’austerity si vede ma è discreta. Niente Foro Boario per le conferenze ma anche la sala conferenze della bibilioteca Delfini con gli affreschi a soffitto di Toccafondo, che ha un suo innegabile fascino. Non manca niente. Partiamo.
“La vie est un rêve”, regia di Galin Stoev. Va in scena al Comunale Luciano Pavarotti la produzione del Théâtre de la Place/Liège della versione del regista bulgaro, giovane ma già conosciuto a livello internazionale dopo l’esplosione ad Avignone, due anni fa, del celebre testo di Pedro Calderón de la Barca ispirato a “Le Mille e una notte”. Sottotitolato con intelligenza in italiano, dove non tutto è tradotto, facendo sì che lo spettatore non stia per due ore e mezza con il naso per aria, ma si perda anche nella messa in scena, ricca e a tratti intrigante. La commedia barocca oscilla fra sogno e realtà, e così anche l’ispirazione dello spettacolo lavora su un registro di irrealtà scenica (una serie di macchine spaesanti e algide), contrapposte alla carnalità a tratti drammatica a tratti ironica e grottesca dei personaggi. Alcuni attori sono in gran forma e regalano un esito piacevole, non scontato. Un re grottesco che tiene un figlio schiavo per anni in una grotta temendo possa divenire un tiranno. Poi lo libera per vedere cosa succede. Donne, intrighi da romanzo di corte tardo-medievale, umanità. E quella ci viene ritornata da un allestimento piacevole, che cerca di districarsi in un testo sicuramente non facile.
“Quai Ouest”, regia di Rachid Zanouda. Mettere in scena questo testo di Bernard-Marie Koltès è un’impresa da pazzi. Ci prova Rachid Zanouda, giovane regista francese prodotto dal Théâtre National de Bretagne di Rennes, Programma Cultura dell’Unione Europea nell’ambito del Progetto Prospero. Zanouda studia anche una straniante ma efficace scenografia vuota con Fabrice Le Fur, in cui fondamentali sono le luci, di Jean-Jacques Beaudouin. Dire cosa succede in una drammaturgia di Koltès è come contare i fili d’erba in un prato: non solo è impossibile, ma toglie anche la poesia dell’insieme. E’ una drammaturgia psicotica, costruita su un universo recluso di un futuro che forse è già il nostro, da cui gli abitanti cercano una fuga che non arriva. Si tinge persino di noir il composto verbale, che come sempre travolge lo spettatore, lasciandolo stordito.
La messa in scena di un testo del genere è veramente un’impresa scivolosa. Il regista ci prova con coraggio, facendo delle scelte chiare, affidate a un gruppo di bravi interpreti. Se si supera l’ostacolo di un’ambientazione pressoché buia per quasi due ore e di un testo snervante, l’esito è piacevolmente coerente, e quindi si può parlare di un’operazione culturale riuscita.
“Montage for Three” + “This is not about everything”, di Daniel Linehan. Che questo ragazzo americano (ma ormai europeo d’adozione) sia un talent geniale lo si capisce abbastanza presto. Nel dittico che propone in questi giorni alla Galleria Civica di Modena, il ragazzo fa capire di avere armi non solo artistiche ma soprattutto un talento creativo di rara potenza ed efficacia. Il primo movimento è una performance in cui, giocando sui gesti di alcune celebri foto che hanno raccontato il nostro tempo, l’artista racconta quanto la cultura pop non aiuti a mantenere la memoria bensì a corromperla, in un indistinto fluire che fa trasformare il braccio teso di Hitler nel saluto ad un amico di una scampagnata in vacanza. O la posa tragica di un omicidio in Vietnam in una posa da sciocchi, di quelle che scattano i turisti che sembrano sorreggere il peso della torre di Pisa. Il tutto con efficace scansione della transitorietà del codice semantico, mentre l’artista e la co-interprete Salka Ardal Rosengren alternano a ritmo frenetico pose e gesti in rapida sequenza.
Ulteriore approfondimento dell’argomento si ha nel secondo elemento, un assolo tanto crudo quanto ai limiti del fisicamente sostenibile. L’artista, come fosse lancetta di un ideale orologio per abbozzare il quale sono deposti in circolo una serie di libri, inizia piano piano a girare; poi la velocità aumenta, fino a diventare frenetica. E tale resta per la successiva mezz’ora senza interruzione. In questo tempo l’artista legge, scrive, declama il manifesto poetico di quello che il suo lavoro non è. Lo spettatore non resta indifferente. Il giovane ha grande talento. Va seguito assolutamente. Non lo premiamo col massimo dei voti solo perché non vorremmo si montasse la testa.
“1973”, di Massimo Furlan. Quella che va in scena al Teatro Ermanno Fabbri di Vignola è una pièce che nasce su una drammaturgia di Claire de Ribaupierre prodotta da Numero 23 Prod insieme al festival d’Avignon, che l’ha ospitata nel programma ufficiale dell’edizione appena trascorsa. Il tutto nasce dall’idea di far rivivere un popolare show canoro della televisione, il Concorso “Eurovision de la Chanson”, che vedeva la partecipazione di cantanti provenienti da tutta Europa.
Così, mentre scorrono le immagini dell’edizione del 1973, tanto kitch e lontana, con quelle pettinature folli e i vestiti improponibili, ecco Furlan che appare travestito di volta in volta come questo o quel cantante. La cosa diverte per dieci minuti, poi inizia a diventare stancante. A quel punto lo spettacolo vira, introducendo un illogico dibattito fra i suoi ospiti sulla semantica del rapporto fra canzone e antropologia. Anche questo all’inizio diverte ma dopo meno di dieci minuti torna a stancare. Il problema è proprio la durata, visto che il tutto dura quasi un’ora e mezza, travalicando il tempo della satira e quello – ancor più fulminante – dell’ironia, per perdersi in un’operazione solipsistica, sulla cui utilità artistica il pubblico esce alla fine annoiatamente concorde. Peccato.
“Black Tie”, dei Rimini Protokoll. Già ospiti di Vie con “Karl Marx: Das Kapital” e “Erster Band”, tornano a Modena i berlinesi Rimini Protokoll, questa volta al Comunale di Carpi. Miriam Yung Min Stein, Hye-Jin Choi e Ludwig (Peter Dick) raccontano una drammaturgia scritta da Helgard Haug & Daniel Wetzel che, grazie ad un’intensa e ben costruita ricerca di fonti di cui si deve il merito a Sebastian Brünger, indaga sugli effetti delle adozioni facili dai paesi poveri dell’Asia negli anni Settanta.
In una narrazione appuntita di un’ora e 10 minuti circa, una ragazza dal tratto asiatico racconta in prima persona quella che potrebbe essere la sua storia. Che lo sia o meno è alla fine irrilevante. E’ una storia che coinvolge lo spettatore, gli fa toccare il dramma umano dell’abbandono, della difficoltà della ricerca delle radici, quelle biologiche e quelle più profonde. Si arriva a parlare addirittura e con disinvoltura di mappa genetica e codici. Proprio questo distingue ciò a cui assistiamo da uno strappalacrime programma da tv commerciale.
Il passo dopo passo all’indietro è ben fatto, poetico, inchioda lo spettatore al racconto. Il dramma di uno diventa dramma di un popolo, riflessione sulla povertà e sulle presunte vie di fuga, sul falso concetto di integrazione e sui buonismi di maniera. Ben fatto e solo apparentemente semplice.