Per un’arte clandestina. Intervista a Claudio Morganti

Claudio Morganti
Claudio Morganti in una lettura del Woyzeck (photo: Claire Pasquier)

Abbiamo intervistato Claudio Morganti a pochi giorni di distanza dall’incontro Per un’arte clandestina. Le ricerche, da lui curato, che si è svolto domenica 20 novembre a Castiglioncello (LI) e dedicato alle poetiche della scena.
All’incontro pubblico hanno partecipato come ospiti invitati Raffaella Giordano, Danio Manfredini, Alfonso Santagata, Riccardo Caporossi, lo stesso Morganti, Piergiorgio Giacchè, Massimo Paganelli e Attilio Scarpellini.

Scrive Morganti nell’appello con il quale ha chiamato a raccolta tutti gli artisti desiderosi di confrontarsi sullo “stato dell’arte”: “Sono convinto che per una volta si possa parlare di teatro senza parlare delle condizioni in cui il teatro versa, che chi fa ricerca nell’arte possa parlare del proprio percorso di ricerca senza necessariamente dover parlare di difficoltà economiche e istituzionali”.

Come è nata questa idea di incontro e come mai hai scelto di far intervenire determinati artisti, quali Danio Manfredini, Raffaella Giordano, Alfonso Santagata e Riccardo Caporossi?
Queste cose non si sa come nascono e quando nascono. È qualcosa che è venuto fuori chiacchierando con Attilio Scarpellini. Sono cose che uno ha in mente, ma ce l’ha fino a un certo punto e poi, magari parlando con altri, si chiariscono e vengono fuori. Per quel che riguarda le persone che ho invitato, questo dipende dalla mia limitata conoscenza degli artisti. Io non è che conosco proprio tutti. Queste persone le conosco da anni e sono persone che stimo e che hanno condiviso con me il tempo della loro vita nel teatro. Ci siamo seguiti a distanza – con Alfonso [Santagata] abbiamo lavorato per dodici anni assieme – e quindi sono dei punti di riferimento per me. Rappresentano quel che io penso sia un elemento fondamentale, che ci deve essere sulla scena quando c’è un attore, ovvero la sincerità, non so come altro chiamarla. L’attimo del teatro può capitare solo quando le difese vengono abbassate e le maschere cadono. Questo succede anche nella vita. Il teatro è proprio il luogo deputato perché questo accada. È stato inventato ed è stato affastellato di apparati e di cose astruse proprio per poter rendere evidente la caduta di tutti gli apparati e soprattutto delle maschere, e io, quando penso a persone in scena che questa maschera la buttano via spesso e volentieri, penso soprattutto a queste persone. C’è anche César Brie, che comunque era invitato e non è potuto essere presente perché era in Bolivia, e Antonio Neiwiller, che non c’è più. Tra l’altro sono persone con le quali ho una certa confidenza, che non vedevo da tempo. In realtà avevo voglia di incontrarle e di parlare con loro.

Quali sono le sensazioni che hai provato nei giorni successivi all’incontro?
L’unica cosa che ti posso dire è che è veramente difficile comunicare il fatto che si fa una cosa senza scopo alcuno. Probabilmente è un pensiero poco comprensibile. Infatti, più che un “incontro”, di un “convegno”, si è trattato di un raduno, proprio come quelli delle Cinquecento o delle moto. Ci siamo incontrati senza nessuno scopo se non quello di incontrarci e incontrare. La cosa, come abbiamo potuto vedere, ha funzionato. Infatti chi è venuto con un qualche scopo, pubblico, privato o personale che sia, ha prodotto un leggero stridore. Ma tale era la rilassatezza di fondo che tutto è stato accolto con estremo interesse.
Mi interessa molto questa dimensione, questa “forma” più che formula. Non è altro che la possibilità per gli artisti di incontrarsi e parlare tra loro. Punto. La cosa era dichiarata, non c’era nessun intento. Ed è possibile: se si va senza aspettative o scopi, le possibilità che tu hai si moltiplicano. Vanno dall’annoiarsi moltissimo fino al fatto che accada qualcosa che non avevi previsto, tipo un incontro, un’idea, mentre invece, quando si ha uno scopo, possono accadere solamente due cose: o lo raggiungi o non lo raggiungi, e così ti chiudi le altre migliaia di possibili porte.

Durante il “raduno”, nel tuo intervento hai parlato molto del concetto di alea, di rischio, un “lasciare delle macerie per poi poterci camminare sopra”. Cosa intendi?
Rispondo in modo semplice, in poche parole: quando individui un percorso, rispetto alla possibilità di fare qualcosa in teatro, e lo stra-provi, lo stra-definisci e lo stra-fissi, bene, tu hai fatto una gettata di cemento e non può succedere nulla. Ora, quando io dico succedere, non dico che deve cadere un proiettore da un’americana perché hai trascurato di fissarlo, ma intendo piccole cose: frammenti, fili, cambiamenti, refoli d’aria, qualcosa che si rinnova e cambia. È in questo che io individuo il teatro. Se invece chiudi e blindi ogni tono, ogni pausa, ogni movimento (lo spettacolo) non ti dai la possibilità di ascoltare e di reagire nell’attimo. È tutto qui.

Katzenmacher, con Santagata e Morganti
Katzenmacher, spettacolo d’esordio della compagnia Katzenmacher, con i giovani Santagata e Morganti nel 1980 (photo: katzenmacher.it)

Molti degli interventi hanno parlato di questo momento, come una fase nella quale il “teatro di regia” risulta superato, così come il teatro di narrazione. Che opinione hai al riguardo?
Il teatro di regia, come ho detto nella mia relazione, è per me un concetto trasversale. Non è una forma, è proprio un modo di intendere il lavoro del palcoscenico. Dunque il “metodo“ teatro di regia si può applicare a  qualsiasi forma, sia in una performance che nel teatro di narrazione: vuol dire fissare in maniera ostinata e sistematica qualunque tempo, qualunque passaggio e forma. Persino quando fai narrazione può accadere. Se non ti lasci spazio perché qualcosa ti accada, una sorpresa, un tempo imprevisto, un tempo che tu decidi lì per lì, se è tutto stra-provato e  stra-fissato, allora è teatro di regia. Mi rendo conto che scivolare senza problemi e con abilità tra toni e tempi fissati dà un’idea di “professionalità” ma, ancora una volta, il “professionalitismo“ è faccenda di spettacolo e non di teatro. Il teatro è fatto di alea e mistero – anche Alfonso Santagata diceva “io non voglio indagare“ – , è fatto di  spazi che devi lasciarti aperti, quegli spazi che il teatro di regia ha occluso e occlude in tutti i modi, perché è molto più comodo mettere i piedi su un bel lastrone di cemento piuttosto che su macerie o sabbie mobili.

L’intervento di Piergiorgio Giacchè ha riguardato lo spettatore e il pubblico. Tu che rapporto hai col pubblico?
Penso che possa dirsi fortunato quell’attore che può permettersi un pubblico, grande o piccolo che sia, che è lì in quello spazio e in quel momento con gli stessi intenti e gli stessi scopi che ha l’attore. Io diffido di chi va a teatro con intenti totalmente critici, poi ognuno va a teatro a fare quello che vuole, però è un po’ l’equivalente dello spianarsi la strada. Voglio dire, se io evito di procurarmi delle trappole, dei tranelli, non avrò mai nulla da trovare al momento, e questo vale anche per lo spettatore. Però lo spettatore dovrebbe avere gli stessi scopi che ho io, dovrebbe andare lì a cercare di sentire quegli attimi di teatro, al di là di “bello, brutto, mi è piaciuto, non mi è piaciuto”, che sono solo categorie. Bisognerebbe poter uscire e tra spettatori darsi delle gomitate e dirsi: “l’hai sentito? non l’hai sentito? in che momento?” etc, etc. e raccontarsi quali sono i momenti in cui abbiamo dimenticato il tempo o ci siamo persi in un’immagine o siamo precipitati dentro a qualcosa e ci siamo dimenticati di noi e siamo diventati trasparenti. Se un attore è in grado di procurarsi tutto ciò e lo spettatore è li proprio per questo, allora attore e spettatore condivideranno la stessa esperienza.

Ritorniamo per un attimo al tuo lavoro artistico. Quali sono i progetti a cui stai lavorando?

Lavoro da alcuni anni attorno al “Woyzeck” di Georg Büchner come terreno naturalmente accidentato. Sto lavorando intorno alla dimensione dell’ombra, sulla possibilità di far agire l’ombra al posto del corpo. Per non dilungarmi troppo, poiché la risposta sarebbe molto lunga, diciamo che ci sono un paio di elementi in questo momento che mi interessano: uno è appunto l’ombra e l’altro sono la carne e il sangue. Il lavoro, previsto all’inizio come pura indagine intorno alle ombre, si trasformerà probabilmente in un ibrido, proprio in un doppio, cioè nell’ombra e nel suo opposto.

All’incontro di domenica tanti giovani presenti hanno parlato di maestri, del bisogno e della mancanza degli stessi. Chi sono o sono stati i tuoi maestri?
Erano tutti lì presenti, i miei maestri. Ogni volta che, nel corso della mia ricerca e del mio lavoro, mi capita, lavorando o no, di pensare a qualcuno, a qualche istante, a qualche immagine o a qualcosa che ho vissuto da spettatore, qualcosa che mi ha cambiato, bene, quel momento, che mi torna anche dopo venti o trent’anni, beh’ quello lì per me è “maestro”. Non intendo sminuire la cosa, se vuoi ti faccio dei nomi; oltre a quelli da me invitati posso dire Carlo Cecchi, Leo De Berardinis, Neiwiller, Bene, Eduardo, Santuccio e moltissimi altri i cui nomi non direbbero niente a nessuno! L’importante non è essere maestri, importante è averne fame, e conoscerne, praticarne e farsi influenzare. È davvero risibile la paura di farsi influenzare a meno che… tu non intenda ergerti al livello dei maestri, allora si pone un problema di confronto: allora sì, forse è più comodo dire di non averne.

Nella tua relazione, durante l’incontro, hai dichiarato che la tua intenzione era di fare un “buco nell’acqua”. Puoi dire di esserci riuscito?
Per quanto mi riguarda sì. Assolutamente. È il discorso che facevo all’inizio rispetto alla possibilità di concedersi uno spazio di raduno ozioso. Ne abbiamo avuta anche la prova, poiché ci sono state anche incursioni che avevano scopi, che avevano obiettivi. Quindi abbiamo visto entrambe le cose e va bene così. Però io dico che la parte oziosa, la parte libera, la parte aperta, quella della confessione, è proprio quella “il buco nell’acqua” di cui parlavo. Quella cosa che non serve, che non ha un’utilità, che non dovrebbe avere sviluppo, che se intende rinnovarsi dovrebbe cambiare segno, poiché non si potrà replicare, proprio come con il teatro.

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