Al Teatro della Cooperativa di Milano la parabola del fondatore del fascismo diventa metafora anche delle guerre attuali. Con uno sguardo al conflitto tra Israele e Gaza
Sono passati ottant’anni da quel famigerato 16 ottobre 1943 quando, alla stazione Tiburtina di Roma, 1022 ebrei del ghetto furono caricati su carri bestiame e deportati ad Auschwitz.
Costanza Calò non era stata catturata: «Prendete anche me» disse, per non abbandonare il marito e i cinque figli che erano già nel treno. Costanza salì sul vagone, e fu la prigioniera numero 1023. Degli oltre mille deportati, solo in sedici tornarono in Italia. Tra i sopravvissuti, nessuno dei 250 bambini.
Questa, e una miriade di altre storie, si trovano nel libro di Aldo Cazzullo “Mussolini il capobanda” (Mondadori). Il saggio, pubblicato nel 2022 a cent’anni esatti dalla marcia su Roma, demolisce l’assunto di un Mussolini che «aveva fatto anche cose buone»; un politico che sarebbe stato praticamente infallibile prima dell’alleanza sciagurata con Hitler e la Germania.
Il libro di Cazzullo è ora anche uno spettacolo teatrale. Si intitola “Il duce delinquente”, ed è una coproduzione Corvino Produzioni – CTB Centro Teatrale Bresciano.
Lo spettacolo è una lettura scenica, un rimbalzo a due voci impreziosito dagli interventi musicali e canori dal vivo – alla tastiera, al violoncello e alla diamonica – di una bravissima Giovanna Famulari.
Cazzullo incontra l’attore e cantante Moni Ovadia, che l’antifascismo ce l’ha nel DNA. Siamo a Milano, al Teatro della Cooperativa diretto da Renato Sarti, e anche qui abbondano solidi anticorpi a fascismi e razzismi di tutte le risme.
L’operazione ci sembrava assai interessante. Cazzullo, firma del “Corriere della Sera”, è uno dei più lucidi osservatori della scena politica italiana e internazionale.
Ovadia – che qui legge a canta in una pluralità di lingue, dal greco allo spagnolo, dal sardo al tedesco all’ebraico – discende da una famiglia sefardita. I sefarditi sono gli ebrei che furono costretti dai re “cattolicissimi” Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona a lasciare la Spagna dopo la Reconquista del 1492. Ovadia è un ebreo legato alla propria cultura, con il valore aggiunto di sapere che cosa significhi essere cacciato dalla propria terra e di non essere affetto dal virus del fanatismo.
Per quel cortocircuito di tempi che fa di Renato Sarti un personaggio sempre con due piedi dentro la cronaca, “Il duce delinquente” inaugura la stagione della Cooperativa appena prima della ricorrenza del 16 ottobre, e mentre è iniziato il conflitto Gaza-Israele, con gli attacchi ai civili dei miliziani di Hamas, le stragi nei kibbutz, la tempesta di missili scagliati da Israele sulla Striscia di Gaza.
In questi giorni di evacuazioni forzate, esodi e violenze, la voce di Ovadia si è alzata a denunciare la politica aggressiva di Netanyahu e di Israele, accusato di violare da sessant’anni le risoluzioni internazionali sulla Palestina.
Il fallimento dei negoziati di pace a Camp David, nel 2000, ha consegnato Gaza ad Hamas, mentre Abu Mazen, presidente palestinese dal 2005, appare un leader sempre più stanco e dimissionario da sé stesso. D’altra parte, nei paesi occidentali come l’Italia, l’informazione appare parziale e schierata supinamente con Israele.
E allora non resta che studiare la storia. Per comprendere che noi occidentali abbiamo imposto ai palestinesi un conto di cui non ci siamo mai fatti carico. Per comprendere che i metodi criminali di Hamas non sono diversi da quelli dell’Europa antisemita e assassina dominata da Hitler e Mussolini, davanti a cui il mondo cosiddetto sviluppato rimase sordo. Per intercettare, infine, eventuali affinità tra la politica discriminatoria dei sovrani spagnoli del 1492 e quella del governo israeliano di questo squarcio di secolo.
Il lavoro di Cazzullo con Ovadia e Famulari è imperniato su Mussolini. Scriveva Oriana Fallaci che «il vero inquisitore è un uomo lugubre. Filosoficamente è il vero fascista, cioè il fascista privo di colore che serve tutti i fascismi, tutti i totalitarismi, tutti i regimi purché servano a mettere gli uomini in fila come croci in un cimitero. Lo trovi ovunque vi sia un’ideologia, un principio assoluto, una dottrina che proibisca all’individuo d’essere sé stesso».
Nel 1994, prima di imboccare la via di Damasco, Gianfranco Fini aveva definito il duce «il più grande statista del secolo». L’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa conserva come reliquie busti e santini del duce.
E invece no. Cazzullo dimostra in questo lavoro che Mussolini era un delinquente già prima di salire al potere. Lo era prima di fondare i Fasci di Combattimento, a Milano, nel 1919. Aveva già stuprato una ragazza, in nome del “disprezzo della donna” mutuato dai Futuristi. Aveva ottenuto, con le minacce di una rivoltella, la mano di Rachele Guidi, sposata nel 1915. Aveva lusingato con false promesse Ida Dalser, che gli diede un figlio, Benito Albino: entrambi furono tenuti lontani dal duce con la forza, e finirono i propri giorni in un manicomio.
Non occorre elencare le violenze squadriste. Diventato presidente del consiglio, Mussolini mandò a morte uno dopo l’altro i principali oppositori politici, da Matteotti a Gobetti, da Amendola a don Minzoni, fino a Gramsci e ai fratelli Rosselli.
Mussolini sostenne la scalata alla dittatura di Francisco Franco. Inaugurò una stagione coloniale fatta di pulizia etnica, che contemplava l’uso di armi di distruzione di massa. Fino all’infamia della dittatura, con la soppressione di tutti i diritti liberali. Fino alle leggi razziali, preludio alle deportazioni e alla Shoah.
Anche la guerra era l’esito naturale del fascismo, e lo certifica il testo della canzone “Giovinezza” ritoccata da Salvator Gotta nel 1925.
Bel lavoro di immagini, musica, parole e soprattutto denuncia, questo “Duce delinquente”.
I protagonisti cantano brani come “Parlami d’amore Mariù”, “Abat-jour”, “Rosamunda”, “Non dimenticar le mie parole”; oppure “All’armi”, “Giovinezza”, “Faccetta nera”, “Lili Marleen”. E ci pervade il senso di un’epopea scanzonata, trasognata e plumbea, di una retorica conformista, trascinante, avvilente.
Esploriamo la veste misogina del regime, la sopraffazione che legittimava la violenza dell’olio di ricino, del manganello e dei crani fracassati come male necessario per un sovvertimento rapido delle istituzioni, come morale risolutiva di ogni impasse giudicata “cancrenosa”.
Tantissimi i documenti, le lettere, gli sguardi in questo lavoro che emoziona già da sé, che commuove molti spettatori fino alle lacrime per l’umanità che ne trapela. Perché ci aiuta a leggere il presente: che sia quello della Siria o del Kurdistan, quello dell’Ucraina, dell’Iran o della Palestina.
C’è lo spazio per i sentimenti intimi, per l’amore coniugale spezzato dalla ferocia in camicia nera: quello tra Matteotti e Velia Titta, poetessa e scrittrice; quello tra Gobetti e Ada Prospero, giornalista, traduttrice, partigiana; quello tra Gramsci e Giulia Schucht, oggetto di un appassionato epistolario dal carcere.
Quando l’idea di partenza è la sopraffazione di uno Stato sull’altro, il diritto di un popolo forte a detrimento di uno debole, la guerra è una conseguenza naturale.
Oggi, 16 ottobre 2023, ricordiamo gli ottant’anni della razzia del ghetto di Roma, di cui furono responsabili i fascisti in camicia bruna e quelli in camicia nera. L’auspicio è che la comunità italiana e internazionale sappia leggere tra le righe. Sappia collegare le discriminazioni del secolo scorso a quelle attuali e urgenti.
In un articolo sul “Corriere” di qualche giorno fa Cazzullo sosteneva che «un massacro indiscriminato a Gaza non sarebbe soltanto un lutto per l’umanità, un’arma nelle mani dei nemici dell’Occidente, un’ulteriore spinta al vortice dell’odio. Sarebbe una sconfitta anche per noi. Eliminare Hamas senza spargere altro sangue di innocenti è molto difficile, forse impossibile. Ma deve essere la bussola che guiderà le prossime, delicatissime e decisive giornate»
La pietà per i civili di Gaza è identica alla compassione per il massacro di ebrei innocenti e si lega all’indignazione per il rastrellamento del 1943. Non sono sentimenti in antitesi; non sono eventi lontani: si compenetrano e si tengono insieme, a distanza di ottant’anni e di duemila chilometri.
La voce di Ovadia che imita Mussolini, Hitler, Churchill distrae e disturba, non rende giustizia all’attore che Ovadia è.
Meglio sarebbe che Moni interpretasse a gesti il discorso “dal vivo” che esiste in tutti i documentari Luce. In sottofondo la voce storica dei personaggi darebbe l’importanza giusta al momento.
E’ un aspetto che può far discutere, e risultare disturbante. La voce di Ovadia non è più quella di una volta. Qui l’intento con cui viene usata è doppiamente parodistico: mettere in ridicolo non solo Mussolini, ma anche la sua imitazione. Certo non c’è un intento mimetico. Ma forse se ne poteva fare a meno.