La fiaba popolare italiana, raccontata da Beppe Rizzo

Al Paese di Pocapaglia|La gatta Cenerentola|La gatta Cenerentola
||
La gatta Cenerentola
I protagonisti de La gatta Cenerentola insieme a Beppe Rizzo e Fabiana Ricca
Eccoci oggi con Beppe Rizzo, della compagnia di teatro di figura di Torino Oltreilponte, recente vincitore con la sua ultima produzione “La gatta Cenerentola” del massimo premio alla rassegna Giocateatro. Lo spettacolo continua il progetto sulla fiaba popolare italiana, che lo ha già visto mettere in scena “Le tre corone”, “La principessa preziosa”, “Al paese di Pocapaglia” tratte da “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile e da “Fiabe italiane” di Italo Calvino.
Questi spettacoli si propongono con l’idea di cercare un nuovo modo per raccontare la fiaba italiana attraverso il teatro dei burattini, nel tentativo di avvicinare queste tradizioni di origine popolare al pubblico contemporaneo.

Il progetto nasce dopo l’uscita da Oltreilponte di Manfredi Siragusa, e rappresentano una nuova direzione dell’artista piemontese, che ci aveva già donato alcuni spettacoli veramente memorabili, vincitori di diversi premi, come “Faust e la mano bianca” e versioni veramente particolari di classici come “Ballata per Woyzeck”, “Don Chisciotte” e “Romeo e Giulietta”, che vedono l’utilizzo di diverse tecniche di teatro di figura, uscendo dalla baracca dei burattinai della tradizione. 

Ne “La gatta Cenerentola” Beppe Rizzo è in scena accompagnato da Fabiana Ricca per narrarci la storia della Gatta Cenerentola, già resa famosa da Roberto De Simone su una ben calibrata drammaturgia di Valentina Diana, con scene, costumi e pupazzi di Cristiana Daneo.
La storia è narrata in stretto e continuo rapporto con il pubblico, a suon di musica, con tanta ironia e  l’utilizzo di grandi ed espressivi pupazzi (le sei sorellastre di Cenerentola sono invece più piccole), mescolando a tutto tondo diverse tecniche molte delle quali poco praticate nel nostro Paese. Abbiamo posto a Beppe alcune domande per approfondire il suo lavoro, che a Torino è riuscito ad incantare (oltre al numeroso pubblico adulto di operatori) anche bambini molto piccoli.  

Il succedersi del tuo lavoro, dopo il necessario apprendistato, è stato diviso in due: la prima parte con Manfredi Siragusa, la seconda ha visto un faticoso ricominciare, praticamente rimettendoti in gioco. Ce ne vuoi parlare?
Quel che da fuori sembra diviso in fasi, dentro di me è percepito come un percorso unico e continuo, in cui la crescita personale, gli incontri e le esperienze umane si riflettono sul piano lavorativo. Il teatro segue la mia vita come una specie di ombra, cresce o si involve con essa, ne rispecchia le fasi e le curve. Per questo è sempre stato faticoso, dagli esordi sino ad oggi, perché presuppone la messa in gioco continua del fattore umano. Limiti e capacità, soddisfazioni e difficoltà del vivere, anche quelle più basse e materiali, determinano le modalità di approccio al fare teatrale. E il mio percorso non è diverso da quello di tanti altri. A tutti capita di cadere, rialzarsi e ricadere ancora. Succede a me e anche alle mie ombre.

Perché la scelta di usare un linguaggio, diciamo così, ‘desueto’ come il teatro di figura? Che potenzialità ha questo modo di fare teatro?
Il teatro di figura più che desueto è antico. Nel senso nobile del termine. Il potere sta nella forza evocativa delle figure, che affonda le sue radici in un passato magico e rituale. Rappresentano e codificano un’umanità a cui sono estranee, e l’effetto è così intenso, straniante, che ha sempre acceso l’immaginazione dell’essere umano. La figura, in sé e di per sé, è un oggetto inerme, inespressivo, per certi versi inutile. Ma quando, nelle mani dell’attore, l’oggetto prende vita e si carica di potere simbolico, la mente dello spettatore viene catturata e l’immaginario messo in moto. Risvegliando esperienze, appunto, antiche. Il teatro di figura presuppone una fortissima relazione col pubblico, richiede partecipazione attiva, si completa nella testa di chi osserva. Burattini, pupazzi, marionette sono un veicolo portentoso e, quando la drammaturgia che li sostiene è cosciente di queste loro possibilità, le figure possono diventare un valido e alternativo strumento per entrare in relazione con il mondo e la società contemporanei. Sono leggere e profonde al tempo stesso, accompagnano il sorriso e stimolano la riflessione. La sfida starebbe in questo. Parlare alla gente di oggi, utilizzando strumenti antichi.

La gatta Cenerentola
Beppe Rizzo ne La gatta Cenerentola
Come si sviluppa il tuo rapporto con chi ti costruisce burattini e i pupazzi?
Ho la fortuna di avvalermi di collaboratori e costruttori con mentalità allargate da esperienze internazionali. Con loro il rapporto è altamente dialettico, condividiamo il principio secondo cui l’obiettivo primario è sempre il progetto scenico, il teatro nel suo farsi e replicarsi. Le figure sono a servizio dell’attore, l’attore è a servizio di un’idea. L’idea è una sintesi della propria urgenza comunicativa, dei mezzi di cui si dispone, del contesto a cui ci si rivolge. In questo sistema le figure sono uno strumento e non un obiettivo. Dopo la scelta sulla tipologia di figura più adatta all’ipotesi di spettacolo, le fasi di costruzione seguono quelle di elaborazione drammaturgica. Io stesso vi partecipo attivamente, assecondando il primato della funzionalità su quello estetico. Tra le fasi di costruzione e la drammaturgia c’è sempre contaminazione reciproca e, talvolta, il manufatto modifica o getta luce nuova sul pensiero che lo ha generato, ripercuotendosi felicemente sul senso di unità architettonica complessiva. Questi momenti di fusione delle competenze, di intreccio tra la riflessione a tavolino e l’azione creatrice manuale, sono tra i punti più alti del lavoro, e si consumano felicemente nelle pareti di un domestico artigianato.

Molto importanti sono, nel tuo lavoro, l’uso della musica e il rapporto con il pubblico.
Sono due elementi stilistici che appartengono alla stessa idea personale del fare teatrale. Un’idea piuttosto semplice e naturale, che volge lo sguardo a quelle forme popolari in cui l’attore, in relazione diretta col pubblico, canta, suona, racconta e commenta. Quello che mi preme è andare alla radice della relazione teatrale, dove gli elementi sono sempre e solo due: gli attori e il pubblico. Il resto penso sia da togliere piuttosto che da aggiungere. La musica è ogni volta prodotta, assieme al canto, dagli attori stessi. Anche le figure, come già detto, sono una valenza dell’attore. Mentre il rapporto diretto col pubblico, che abbatte la quarta parete, spoglia l’attore dal fardello del personaggio, collocandolo in una dimensione di vicinanza allo spettatore, che spesso viene ironicamente coinvolto nel gioco teatrale. La formula del “mi chiamo Beppe e voglio raccontarvi una storia” è efficace perché immediata, permette di veicolare la partecipazione di chi osserva sugli elementi della narrazione, evocati attraverso la voce, le figure o la musica. Il problema è capire, dunque, quali storie abbia senso raccontare al giorno d’oggi e, di conseguenza, quale sia il modo migliore per far passare quel senso.

Ti piace molto uscire dalla baracca. Perché questa scelta così poco italiana?
Ho avuto il privilegio di perfezionare il mio apprendistato, come attore e come animatore di figure, frequentando per anni diversi festival internazionali di teatro di figura. Questo grazie a persone che, nel periodo giovanile, hanno investito su di me e sulla mia formazione, come l’austriaca Trude Kranzl, a cui devo molto. Nel corso di quelle esperienze ho compreso quanto quello delle figure, fuori dall’Italia, venisse assunto con la dignità di linguaggio teatrale a tutto tondo, con drammaturgie precipue e attori professionisti, preparati al consono utilizzo degli strumenti di quel linguaggio. In Italia le cose andavano, e vanno, diversamente. Il burattinaio spesso non è formato come attore. Il teatro di figura, nell’immaginario nostrano, è percepito come un indefinito miscuglio di residui di tradizione, dalle maschere regionali alla commedia dell’arte, e intrattenimento per l’infanzia. A completare il senso di smarrimento, l’improvvisazione spontanea e impreparata di modelli che si ispirano al televisivo. In questo panorama, uscire dalla baracca rappresenta un segnale. Il segno di una volontà che tenta di riappropriarsi del linguaggio delle figure, per ridare senso e dignità al loro utilizzo, inserendole in un tessuto drammaturgico più ampio, dove la ragione ultima sta sempre nella relazione tra attore e pubblico. Altrimenti, quello delle figure, perché mai dovrebbe chiamarsi teatro?

Al Paese di Pocapaglia
Al Paese di Pocapaglia (photo: Giuliano Sberna)
In che modo, nel tuo lavoro, convivono ricerca e tradizione?
Sono nato al nord da genitori del sud e, come tanti altri, non ho radici solide, tanto meno un’identità forte che mi permetta di entrare in relazione con le tradizioni e la storia del mio territorio. Né sono stato formato da maestri che mi abbiano passato gli strumenti di una tradizione precisa. Ammiro coloro che, oltre a tutelare e rinnovare la memoria di una tradizione, hanno gli strumenti, personali e culturali, per sottoporla al vaglio della ricerca, svecchiandola e svincolandola dai legami del passato, ridando alla tradizione una vita nuova e attuale. E’ un percorso che io non mi posso permettere, non possedendone gli strumenti. Per questo ho tentato di traslare il rapporto tra tradizione e ricerca su un piano più ampio, che prescinda dal dato biografico personale. Quel che ne risulta è una riflessione più generale sul rapporto tra antico e contemporaneo, sulla possibilità di parlare al pubblico di oggi recuperando temi e motivi che appartengono al nostro patrimonio culturale collettivo. E’ un percorso che coinvolge sia le tematiche che i mezzi espressivi, e nasce dall’esigenza di relazione tra teatro e società contemporanea. Anche questa è una ricerca, un modo di guardare al futuro, e le domande di partenza sono sempre le stesse: è possibile raccontare un mito o una fiaba ai giorni nostri? Ed è possibile farlo attraverso strumenti antichi, come il teatro dei burattini e delle figure? E qual è il senso dell’operazione?

Perché la scelta di un progetto sulla fiaba popolare italiana? Come continuerà?
Il progetto “Fiaba Popolare Italiana” nasce dalle domande poste poc’anzi. L’esigenza è quella di rivalutare e attualizzare un patrimonio nostrano vastissimo e poco conosciuto, a cui gran parte della tradizione e l’invenzione fiabesca europea, quella invece più conosciuta, deve un forte tributo. I riferimenti letterari fondamentali sono l’opera di Basile del ‘600 e quella di Calvino nel ‘900, entrambe registrazioni vivissime, e crude, del narrato popolare di forma orale. E’ un progetto di repertorio rivolto principalmente alle nuove generazioni, ma anche a genitori e famiglie, che vorrebbe contrastare la tendenza del teatro ragazzi a cristallizzarsi in pochi e inflazionati titoli, spesso di ispirazione disneyana. Il progetto continuerà, esplorando altre vie ed elaborando modi nuovi e attuali, per portare all’attenzione del pubblico una materia in cui affondano le radici della nostra identità.

Hai in mente altri progetti?

Quello più importante, per ora, riguarda il poter vivere di questo mestiere, continuare a fare il teatro in un momento difficile come quello che la nostra società sta vivendo. Un progetto di speranza.
 

0 replies on “La fiaba popolare italiana, raccontata da Beppe Rizzo”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *