Kids Festival. A Lecce il teatro ragazzi è di tutti

Circus Funestus (photo: Eliana Manca)|Picasso (photo: Eliana Manca)|Michele Cafaggi in Ouverture des saponettes (photo: Eliana Manca)
Circus Funestus (photo: Eliana Manca)|Picasso (photo: Eliana Manca)|Michele Cafaggi in Ouverture des saponettes (photo: Eliana Manca)

E all’improvviso arriva Kids Festival, a Lecce. Una grande festa del teatro e delle arti per le nuove generazioni il cui ricorrente dispositivo mediatico quest’anno è: ‘per tutti’, non solo ad onorare gli eventi discriminanti della mensa di Lodi occorsi non molto tempo fa – dimostrando che, nella integrazione delle diversità, si può fare di più e di meglio -, ma per dire che questa quinta edizione intende essere ‘di tutti’. Delle famiglie, per i bambini. Del teatro per il teatro ragazzi.

Una edizione, quella che dal 27 dicembre al 6 gennaio ha animato molti spazi teatrali e semi-teatrali della città – come spiega Tonio De Nitto di Factory Compagnia Transadriatica, co-direttore artistico insieme a Raffaella Romano di Principio Attivo Teatro -, che intende chiamare a sé una moltitudine di linguaggi affinché la frequente dicitura ‘tout public’ riesca ad includere in molti modi le famiglie in una audience stratificata e in perpetua trasformazione.

La transizione dal 2018 al 2019 ha così dato modo a molte famiglie leccesi, ma anche pugliesi – vista la grande affluenza da tutta la regione (e forse oltre), in particolare nella seconda parte e nonostante la neve! – di abituarsi un po’ di più ad andare a teatro, quel luogo a tratti misterioso che con le sue norme di fruizione talvolta fa paura, ma che con una certa ‘abituazione’ (sì, la parola esiste) finisce per diventare una pratica amica come altre altrettanto normate.

Ecco che, giorno dopo giorno, intro dopo intro, i bambini e i loro genitori apprendono e fanno esperienza di silenzio e pausa dalla connessione col mondo via smartphone — giacché a teatro, si sa, la bocca resta chiusa e gli occhi e le orecchie si aprono ben bene. E che se si mangia a teatro, dall’altra parte del mondo un attore, o un burattino, o una marionetta muore. Educare ad andare a teatro: la missione più compiuta di tutte.

Entro nella fittissima rete di proposte optando per un diario di bordo tutto particolare, che non si sovrapponga a ciò che il nostro lettore ha già avuto modo di leggere qui, e che segua le prime, nazionali e regionali, e le presenze internazionali, quelle che nel calendario di quest’anno sembrano mancare di poco la metà della programmazione. Un festival internazionale, quindi, nel senso più ampio ed autentico del termine.

Non mi affacciavo in maniera così intensa ad una micro finestra del macro mondo del teatro ragazzi da oltre vent’anni, ed è molto interessante ritrovarlo in una maturità che dà molto di cui pensare, appunto, ‘a tutti’. Non solo ai bambini, ma anche all’adulto che li accompagna, sia esso spettatore occasionale o non.

Il primo spettacolo che incontro è “Luce” di Aldes nella sala grande delle Manifatture Knos — ex capannone industriale riconvertito in luogo di inclusione socio-culturale dove gli spazi si scompongono e ricompongono a seconda delle necessità.
Aline Nari mi incanta con questo spettacolo filosofico — forse un po’ limitatamente maieutico per essere tale, come anche il suo storico “Il colore rosa”, che vedrò il giorno seguente, ricco di segnaletica, ma poca interazione.
La danzatrice-docente-filosofa presenta la nascita del questionamento nella mente infantile, e lo fa con corpo, suoni, simboli e ‘luce’ appunto. Sembra originariamente avere la consistenza dell’acqua, la luce. Una goccia. Due. Un temporale. Un testo brillante e le musiche originali di Adriano Fontana la accompagnano mentre cammina su un ‘filo’ di palline luminose — le domande – che non sai mai quando arrivano: “Arrivano e basta”.
Un video rettangolare lungo e stretto illumina il buio dal fondo e cadenza le età del domandare. Punti interrogativi che diventano parole, che diventano cuori, forse perché quando arrivano sono talmente tante, le domande, che riempiono l’anima. Fino a che ne incontri una speciale e la coltivi nel tempo. Ci giochi. La colori. La nutri. Cresci con lei. E diventi un ‘cercatore di domande’.
Esplori il mondo. Impari che la realtà è una cosa e il sogno un’altra, ma forse neanche tanto, come se di notte salissi su un’astronave alla ricerca di altri mondi da esplorare. Impari anche che quando vai nel mondo bisogna che indossi il casco di protezione, altrimenti finisce come in “2001 Odissea nello Spazio”… E poi non solo, è ora di armarti anche tu della tua di ‘luce’, ormai neanche più tanto piccolo Jedi, ad affrontare risposte e punti esclamativi! Tu che assolutamente “non vuoi che ti perfettino, ma che ti vuoi perfettare da solo” (sì anche questa parola esiste).
Così nascono le ragioni, le tue ragioni e i tuoi torti, quelle dalla forma di stella alla quale, se aggiungi una punta più lunga, diventa un’affermazione capace di modificare l’espressione del viso. Fino ad una conclusione pacificante per questo lavoro, che vede le domande ormai cresciute e, in un nuovo ‘giardino di sfere di luce’ più grandi e di diverse dimensioni, si sono fatte puntoni e sono diventate ‘rispostone’ e ‘pensieroni’.

Il mio primo giorno di festival si conclude con “The Insect Circus”, un’esperienza gioiosa che restituisce vita e dona nuova identità alla marionettistica in legno di epoca vittoriana.
Lo String Theatre è un duo londinese che ingrandisce il mondo degli insetti per portarli ad altezza bambino, anche molto piccolo (2 anni), per una mezz’ora di magia retrò cadenzata da una riconciliante fisarmonica: i bruchi che fanno il tip tap, un ragno che diventa amico di una farfalla appena nata, un’ape trapezista, una cavalletta in bici che porta a casa una zanzara nel cestino, una libellula funambolo!

Il festival mi porta poi in un territorio ulteriore, quello dell’incontro fra pittura e teatro. Lo devo alla performer giapponese Izumi Fujiwara che presenta il suo ‘live painting’ intitolato “Picasso, ritratti” all’ex Convitto Palmieri, edificio storico recentemente ristrutturato, che ospita per ora solo la Biblioteca provinciale N. Bernardini, ma le cui nuove bellissime stanze promettono una esplosione di attività culturali nel prossimo futuro.
Izumi Fujiwara, come anche un po’ suo marito Michele Cafaggi, qui solo assistente, ma che vedrò la sera al Teatro Paisiello, indiscusso ‘maestro di bolle’ con il suo “Ouverture des Saponettes”, mi ricordano nel loro teatro-laboratorio a parete aperta qualcosa di simile alla formazione d’aula. L’interazione appare alla fine un po’ normata, quasi da format, alla ricerca di una complicità ben orchestrata e senza sbavature.

Picasso (photo: Eliana Manca)
Picasso (photo: Eliana Manca)

Nel caso della ‘pittura-teatro’ la live painter pesca un volto adulto dal pubblico per informare e formare i bambini alla ritrattistica attraverso le varie sovrapposizioni picassiane di costruzione del ritratto: osservazione e descrizione da una moltitudine di prospettive del volto ritratto — occhio, bocca, naso per cominciare –; immaginazione che, in un lapsus linguistico, chiama ‘sogno’: “A cosa ti fa pensare questo volto? Al mare? Alla montagna?”. Emozione. “Come ti fa sentire questo volto?”. Ritorno alla realtà nella linearità del nero. Un portrait elementare e diretto che la accompagna nel gesto in tutte le repliche a ritmo di musica.

Nel caso del ‘concerto per bolle di sapone’, uno straordinario padrone di tempistica attorale fra clownerie e pantomima conosce altrettanto bene le dinamiche della comunicazione con una audience da formare, appunto, al produrre bolle di sapone con un prodotto alla fine eccessivamente generoso. Tanto apre lo spirito sapere di questo spettacolo che gira forse più per il mondo che per l’Italia, con (e forse proprio per) la sua quasi disarmante ‘normalità’ (pur nelle acrobazie tecniche più raffinate), quanto lo assopisce con quella ventina di minuti in più.

Nella mattina del 2 gennaio, al Museo Ferroviario (dopo la intro a cura di uno speciale capostazione interpretato dal sempre bravissimo Dario Cadei, fra binari antichi morti e risorti con cura e attenzione in questo gioiellino museale della città), ritrovo con piacere lo straordinario talento narrativo di Angela De Gaetano e la sua ipnotica versione de “Il fantasma dei Canterville”.
Bastano pochi minuti e gesti per ritrovarsi insieme a Virginia nel castello, con la sua macchia di sangue che appare e ricompare, cambia colore, e una profezia liberante e liberatoria, che inchioda non solo la mia attenzione ma anche quella dei bambini. Lei che deve ‘piangere e pregare’ perché la pace torni sul castello e il mondo fuori dal castello.

La mattina del 3, all’ex-Convitto, provo una delicata esperienza di teatro-danza con “Il mio giardino” di Letizia Fata. Una breve eppure intensa parentesi dedicata alla fioritura come metafora della ‘cura di sé’.
Entro un cerchio di terriccio l’artista, che indossa solo una gonna-zolla e trasporta un vaso, illustra e poi condivide con i bambini l’esperienza dell’arare, del seminare, del custodire — imparando ad attraversare il tempo dell’attesa accettando il vento, con i piedini ben saldi nella terra, per non farsi portare via, accogliendo la pioggia che nutre, anche se è un po’ fastidiosa, e poi il primo uccellino del mattino, con il ritorno del sole a scaldare il suolo, entro cui qualcosa di magico e fecondo accade a far nascere il fiorellino che poi diventa fiore gigante e bellissimo.

Michele Cafaggi in Ouverture des saponettes (photo: Eliana Manca)
Michele Cafaggi in Ouverture des saponettes (photo: Eliana Manca)

Sarà la sera del 3 con Julien Cottereau, tuttavia, a siglare forse la migliore proposta del segmento internazionale che ho scelto come linea guida di questo mio percorso.
Incontrato ad Edimburgo e corteggiato per ben tre anni dalla organizzazione, finalmente su un palco leccese, quello del Teatro Apollo, recentemente restituito alla città, il suo “Imagine-toi” (Immagina) seduce tutti, fra clownerie e mimica, in una intensa complicità con suoni, gesti e luci, un po’ Charlot, un po’ Pierrot Lunaire.
Entra da dietro le quinte quello che sembra il custode del teatro, attento a non svegliarne un mostro (o grande animale) che russa in un alone di fumo e rosso. Pulisce, quinta per quinta, fino a che non si accorge del pubblico ed inizia ad intrattenerlo, a comunicare, a scegliere i suoi personaggi dal pubblico stesso, e a farne parlare i corpi direttamente in scena, senza copione.
Un artista immenso nel suo perfezionismo e nella sua generosità, un’esperienza teatrale che è un vero e proprio abbraccio con il pubblico, una ‘tendresse’ quintessenzialmente francese, che è forse il valore più importante della poetica di un ’discorso amoroso’ quale è anche quello del teatro, nella relazione, o ‘patto’, fra attore e spettatore.
Sì, anche qui sono una ventina di minuti di più del necessario, ma è effettivamente qualcosa che non può mancare in una proposta di questa grandezza. L’energia di questo mimo cresciuto alla scuola del Cirque du Soleil non si esaurisce neanche a fine spettacolo, tanto è il bisogno di dare e darsi. Una intimità di gesti e suoni capace di creare quel senso di ‘comunità’ attorno alla ‘festa del teatro’ che è nell’anima di chi ha pensato questo cartellone. Missione compiuta.

Concludo il mio percorso dove l’ho iniziato, alle Knos, il 4 gennaio, dove assisto allo straordinario “Circus Funestus” di Sofie Krog Teater (Danimarca). Una compagnia già ospite del festival in passate occasioni, che in questo caso arriva con un vero gioiello di cui terremo memoria a lungo. Un tendone circense da viaggio, la sala ‘teatro’ con strisce rigorosamente nere e bianche, ad anticipare il destino funesto dei personaggi.
La più adorabile elefantina mai vista è innamorata dell’invisibile puntino di luce Mr Flea, di un amore corrisposto, e che condividiamo con lei attraverso uno schermo TV vintage che sembra entrare direttamente nella sua anima o dietro le quinte del tendone.
Ma la più orribile frusta da circo, Mr Whip, la vuole solo per sé, fino a sigillarla in una cassaforte e buttarla in un mare custodito da piranha. Un immaginario filmico mi fa pensare a Indiana Jones quando inizia la rescue — ma anche prima, con i due maghi che appaiono e riappaiono da una porta che li risucchia dentro e fuori. Il vento inconfondibilmente himalayano.
Sarà proprio lì, sulle cime innevate dell’Himalaya, complice uno jeti, che ci porterà l’avventura, con un piccolo aereo rosso come quello di Mr Lao, nel secondo capitolo della saga, dal quale finalmente il cattivo cadrà, ma anche il buono, fino a ricongiungersi in matrimoniale unione con la sua piccola ma gigantona creaturina. Una festa con tequila e pop corn, senior e junior!, e l’arrivo improvviso di un regalo che renderà della stessa misura e altezza i due innamorati.
Visionario, liberatorio, stupendo.

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