E’ ormai da qualche anno che andiamo dicendo che la trentottenne Arianna Scommegna è una delle più convincenti attrici italiane della sua generazione. Ne abbiamo avuta una riprova assistendo alla sua interpretazione di “Cleopàtras” di Giovanni Testori, al Teatro Sociale di Como nell’ambito di uno scambio tra le residenze del progetto Etre, la milanese Atir e la comasca Torre Rotonda.
Un’interpretazione intensa ed emozionante del capolavoro dell’artista lombardo, quella della Scommegna, piena di ardore e disperazione, assai diversa dalla raffinatissima edizione di Sandro Lombardi che avemmo organizzammo nel 2003 nel piccolo teatro di Canzo, luogo d’elezione testoriano, in occasione del decimo anniversario dalla morte.
“Cleopatràs”, con “Erodiàs” e “Mater Strangosciàs”, forma un corpus unico di grande e lacerante bellezza, i Lai, tre monologhi in versi che furono rappresentati per la prima volta nel 1994, dopo la morte dell’autore.
Questi pezzi teatrali (che si coniugano anche come rimandi all’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso) sono rispettivamente i lamenti di Cleopatra per la morte di Antonio, di Erodiade per il rifiuto del Battista, e della Madonna, madre afflitta e sconsolata per la crocifissione del figlio.
Testori è in questo ultimo canto di dolore che spiega tutto il senso dell’opera: da cristiano, pure sui generis, affida alla speranza la salvezza dell’uomo con l’effetto catartico dell’accettazione del sacrificio terreno.
La grande forza e peculiarità del teatro testoriano sta soprattutto nella lingua, che mescola il latino con l’italiano arcaico, dialetto milanese e lingua colta con parole forgiate per l’occasione, che formano un impasto sonoro unico nel suo genere. Ed è appunto in questa lingua che Cleopatra grida il suo dolore per la perdita dell’amato Antonio, e lo fa in un contesto del tutto particolare. Anche nell’ambientazione storico-geografica infatti Testori mescola gli elementi, mettendo insieme l’Egitto con il Bollettone, l’alterigia soffusa di melanconia di una regina con la ruvidezza volgare di una battona di second’ordine, dove Antonio diventa Tonio, Tunias, rappresentato anche da un fantoccio ispirato ai Gris Gris africani, con cui la protagonista si trastulla tra ironia e disperazione.
L’Egitto di Cleopatra in realtà è trasferito nella Brianza, che diventa luogo dell’anima. I paesi citati sono quelli della Valassina (la patria dei genitori di Testori), che puntualmente ritroviamo nel suffisso “às” (Asso) dei personaggi. Ed è questa geografia dei luoghi che inonda simbolicamente di colori il vestito bianco di Cleopatra. Come simbolicamente gli spettatori sono accompagnati all’entrata del teatro dai vestiti di scena precedentemente utilizzati dall’attrice.
Arianna Scommegna accetta la sfida della lingua e dell’interpretazione, aiutata dal violoncellista indiano Antony Montanari, “accompagnatore di morte” con cui instaura un rapporto fatto soprattutto di ammiccamenti e di sguardi, dove le parole entrano spesso in simbiosi con la musica. “Non ho voluto interpretare il personaggio di Cleopatra, sarebbe stato riduttivo, rispetto alle altissime parole di Testori, bensì ho voluto entrare nelle sue viscere per esprimere i suoi sensi, il suo essere terreno. E lo strumento più idoneo per accompagnare tutte le risonanze del suono testoriano ci è sembrato il violoncello, strumento anche che si può in qualche modo abbracciare”.
E ci riesce benissimo Arianna ad entrare nella carne di Cleopatra, con quei continui cambi di registro e di ritmo, con quelle litanie che non sembrano mai finire, interrotte bruscamente da silenzi e da sguardi anch’essi significanti. E poi l’alternarsi degli interlocutori, ora Antonio, l’amore perduto, ora gli spettatori, ora il suo testimone musicale, pur anche lo scrivano Testori e lo stesso Dio che l’ha creata.
Aspetta fiduciosa la morte, Cleopatra, consapevole che del suo amore per Antonio e dunque della sua vita non resterà Nigotta, anzi nigottàs?
“Questi testi scritti prima di morire secondo me sono una specie di testamento di Testori, e nel loro svolgersi, pur nel dolore estremo delle scelte, conferiscono anche un sentimento di speranza che ha profondamente toccato sia me sia il regista Gigi Dall’Aglio, che pur siamo profondamente laici”. La regia infatti è di Dall’Aglio, che è stato professore alla scuola Civica d’arte drammatica di Milano e dunque di Arianna, che lì si è formata.
“Con Gigi abbiamo accettato soprattutto la sfida di rendere teatrale questa magnifica lingua reinventata, con lui che ha operato nei più disparati luoghi del mondo a contatto con lingue assai diversissime tra loro, ed io, pur da lombarda trapiantata, che ho trovato anche una via più pianeggiante al compito che mi sono data”.
Certo questo è vero, ma è proprio per le peculiarità estreme del teatro testoriano che, senza un’interpretazione adeguata, un testo come “Cleopàtras” sarebbe una sequela di parole incomprensibili. Arianna Scommegna ci ha invece consegnato un pezzo di gran teatro, dove tutto è estremamente comprensibile nella sua complessità, e dove il dolore di una donna entra nelle viscere lasciandoti senza fiato.