Si può parlare di un tema così urticante come la censura utilizzando una drammaturgia costruita non sulla densità semantica della parola, ma riverberata e suggerita in modo determinante dai corpi in movimento.
Ci ha provato, in modo forte e fitto di suggestioni, Alessio Maria Romano, di cui abbiamo visto al LAC di Lugano “Bye Bye”, con la drammaturgia di Linda Dalisi, aiutato da cinque prodigiosi performer che si muovono sul palco in una estenuante performance di quasi un’ora e mezza.
“Bye Bye”, opera creata appositamente per la Biennale Teatro di Antonio Latella, che ha suggerito il tema per l’intera kermesse 2020, rappresenta per lo spettatore una visione intensa e attenta, per ogni sfumatura che attraversa la scena, scandita attraverso dieci capitoli nei quali l’Io si perde per adeguarsi, come suggeriscono le scritte che appaiono di volta in volta davanti al pubblico, nella collettività (Io-tutti), nelle possibilità che ci offre la vita (Io sarei), nelle sue certezze (Io voglio), nel muoversi nel mondo (Io vengo), sino ad uscire dal proprio guscio per creare qualcosa di unico e incommensurabile (Io strabilierò), condizionato però sempre da “Io avrei voluto”.
Una danza, se così la possiamo chiamare, che si asciuga sempre di più, fino alla sua disgregazione più completa, dove ogni cosa che si muove sul palco pare imprigionata da un fremito convulso che potrebbe non appartenere a nessuno o a uno solo che ne muove i fili dall’alto.
Dapprima i movimenti e i gesti di Filippo Porro, Andrea Rizzo, Valerie Tameu, Isacco Venturini e Ornella Balestra, che si muovono insieme all’unisono, sono infatti calibratissimi, ma piano piano ci accorgiamo che qualcosa si sfalda, che la loro armonia si spezza in mille rivoli. Comprendiamo insomma che la possibilità che hanno di esprimersi pienamente è soggetta ad una censura esterna, ma anche ad una loro evidente autocensura. Sono tutte possibilità che si infrangono contro qualcosa che la danza, o meglio il movimento dei corpi, esprime attraverso un inceppamento, che l’occhio dello spettatore viene invitato a percepire e ad attraversare, e che l’interruzione della luce, due volte, interrompe di netto.
Non si può andare avanti uniti perché, come recita la frase del “comico” americano famoso negli anni ‘50 Bruce Lenny (egli stesso censurato e oscurato varie volte), citazione che viene a più riprese nominata ed è ben visibile davanti agli spettatori, “La verità è ciò che è, quello che dovrebbe essere è solo una terribile bugia”.
Fin dal nostro ingresso in sala lo spettacolo è accompagnato dallo straordinario Isacco Venturini, che con il musicista Riccardo Di Gianni intona cinque, dieci volte, sempre in modo diverso, fino allo stordimento, “Bye Bye Blackbird” di Ray Henderson e Mort Dixon (motivo musicale dalle innumerevoli versioni, utilizzato in contesti diversi per significare la rivolta al potere della consuetudine), per poi gettarsi anche lui nella mischia.
Ma sono della partita anche “Love to love you baby”, portata al successo da Donna Summer, “Come Together” dei Beatles, brani che in qualche modo ebbero a che fare anche loro con la censura.
“Bye Bye” è uno spettacolo insolito, in cui la danza si muove verso territori nuovi e imprecisati, e che richiede allo spettatore un’attenzione costante, un asservimento dello sguardo alla ragione, che è costretta a non censurare niente per entrarvi a capofitto, lasciandosi attraversare dai continui stimoli che riceve.
Abbiamo chiesto ad Alessio Maria Romano, da poco insignito a Venezia del Leone d’argento per il teatro, di approfondire sia il suo modo di approcciarsi al teatro, sia i contorni di questo spettacolo.
Prima di entrare direttamente in “Bye Bye”, raccontaci quali sono stati i tuoi maestri e i più importanti nella tua formazione teatrale.
I maestri sono tanti, e per me è difficile stabilire esattamente cosa sia un maestro. Tendo per mia natura a guardare, osservare, ammirare ma a non idealizzare nessuno. Rimango sconvolto dalle idee o dalle proposte artistiche, filosofiche, scientifiche di alcuni importanti individui, ma nello stesso tempo dalle parole o dai gesti del tutto casuali di emeriti sconosciuti. Ci sono state sicuramente delle figure che ho incontrato che mi hanno profondamente guidato, indicato, deluso e aiutato. Ammiro ma diffido da ciò che oggi si definisce “maestro”. Ritengo che ci sia un bisogno eccessivo di creare e sentirsi e di avere maestri, padri e madri. Amo più quelle figure che, anche se contraddittoriamente e saltuariamente, riescono ad essere incontri e stimoli importanti nel percorso di ognuno di noi.
Artisticamente, umanamente e dal punto di vista pedagogico, Maria Consagra è stata per me un importante punto di riferimento. Successivamente Raffaella Giordano per la poesia, l’ascolto ma anche per il coraggio. Luca Ronconi è stato una grande fonte d’ispirazione. Il suo sguardo sullo spazio, sull’insieme, la sua disciplina e la sua intelligenza mi hanno sempre tremendamente affascinato. In modo indiretto e qualche volta diretto, il lavoro di Trisha Brown, Anne Teresa De Keesresmaker, Willima Forsythe, Alain Platel e ovviamente Pina Baush, ma prima di lei tutte quelle correnti della danza libera dei primi del ‘900.
Ecco, tutto questo mi ha sicuramente fatto riflettere e illuminato. Nello stesso tempo però la filosofia in generale, la pittura, l’antropologia e la scienza nella sue leggi fisiche e biologiche mi ispirano in continuazione. I tanti viaggi che ho fatto sono stati sicuramente i miei più grandi maestri. Non ho un maestro o una serie di maestri specifici. Ho avuto moltissimi meravigliosi “incontri”, alcuni anche tremendi e dolorosi, ma che comunque mi hanno lasciato forti ricordi e riflessioni. L’incontro con i miei allievi e danzatori fa sì che loro diventino i miei stessi maestri. Sono una persona che cerca di ascoltare molto, ma che nello stesso tempo pone in modo critico moltissime domande soprattutto a sé stesso.
Il tema dello spettacolo è la censura. Ti ha interessato solo come commissione per la Biennale o è un tema che ti ha toccato personalmente?
All’inizio la domanda è arrivata un po’ dall’alto, e non è stato facile capire come potesse in qualche modo riguardarmi; ma è bastato cominciare a studiare per capire che mi toccava e toccava in modo violento tutti noi.
Abbiamo individuato delle importanti fonti da cui attingere e ispirarci. Il testo di riferimento più importante è stato sicuramente “Censori all’opera” di Robert Darton. Successivamente, il confronto costante con la drammaturga Linda Dalisi mi ha permesso di guardare con un po’ più di distanza l’enorme quantità di informazioni che l’argomento necessariamente includeva.
E’ un tema vastissimo, una rete di fatti e idee anche molto contraddittorie fra di loro.
La prospettiva antropologica e complessa di Darton, insieme a quella degli studi di Todorov e a quelli sul potere di Foucault e Byung-Chul Han, ci hanno permesso di fare un po’ di ordine, ma confesso che all’inizio ci siamo smarriti e molto preoccupati.
Come parlare di tutto questo? Come raccontare una questione così contraddittoria e non coerente e tremendamente vasta, di cui esiste una letteratura scientifica frammentata e non esaustiva? Come possiamo comprendere la questione? Quale punti di vista scegliamo?
Ecco, da un lato proprio queste parole: contraddizione, non coerenza, non comprensione, e dall’altro l’incontro con i danzatori, ci hanno permesso di scegliere. Cosa? Per noi era impossibile affrontare il tema come il racconto di un fatto specifico o la cronaca di un avvenimento. La questione era, per noi, più generale e pericolosa, e forse più oscura. Siamo rimasti molto colpiti dalla violenza dei singoli poteri, che nella storia hanno utilizzato lo strumento censura appunto come strumento di controllo e manipolazione dell’altro.
Com’è spiegabile la violenza di Pol Pot e di molti altri dittatori? Perché questi singoli “io” impazziscono in modo così aggressivo da annientare l’esistenza degli altri “io”?
Non ci sono forse risposte precise, anche se diverse discipline hanno tentato di fornire differenti spiegazioni. C’è qualcosa di inspiegabile, contraddittorio e non coerente alla base di questa perversione del genere umano.
Tutto questo, insieme all’inizio della pandemia, che ha completamente bloccato la nostra ricerca e la nostra necessità a stare per forza in scena, ci hanno fatto comprendere con calma che volevamo affrontare qualcosa che riguardasse più il nostro dire “no”, il nostro renderci impossibile una felicità, una scelta. Il nostro essere persi di fronte alla moltitudine di informazioni e desideri. Volevamo parlare di noi all’interno di questo presente. Questo strumento di limitazione della singola libertà, chiamato censura, cosa vuol dire per noi, oggi, figli di un sistema culturale occidentale apparentemente libero? Dove e come possiamo “noi” vedere questa censura?
Il lavoro è nato in sala ponendoci migliaia di domande, cercando e non avendo una idea precisa a priori. La censura si è trasformata in autocensura e l’autocensura in vita. La storia si è rivelata dentro le nostre singole piccole esistenze.
Devo aggiungere che la mia esperienza di docente mi ha anche ricordato quanto, in questi anni, abbia incontrato studenti in serie difficoltà nel permettere al proprio corpo di muoversi. Quanto dolore esiste nel concedere, e direi ancora permettere, al proprio corpo di danzare, ma non solo. Quanto le influenze culturali e sociali limitano senza una violenza esplicita il nostro essere ed esserci? Chi ci impedisce di “essere” ciò che vorremmo?
Queste tematiche, vissute ogni giorno in sala e nella mia personale esistenza, e le esperienze dei miei danzatori, ci hanno fatto scoprire il tema del lavoro. Abbiamo compreso che forse non stavamo facendo uno spettacolo, bensì una esperienza o meglio un incontro, come mi ha detto uno spettatore dopo il lavoro. Un incontro fra di noi e chi ci guarda, come fosse uno specchio nel quale qualcuno riesce a vedere cose di sé e altri, invece, vedono solo l’accadimento, confuso, di azioni. Non volevamo che lo spettatore si sentisse rassicurato, sicuro e in pace. Questo non per sadismo o presunzione, ma semplicemente perché la censura non è qualcosa di rassicurante, comprensibile, coerente e spiegabile.
Se potevamo raccontare davvero qualcosa su questo argomento, l’unico modo che sono in grado di fare è condividendo sensazioni, non gratuitamente provocatorie, bensì semplicemente umane, oneste e sincere. Il nostro è solo un punto di vista.
Secondo me in scena non vi è una vera e propria coreografia. Come definiresti il movimento dei corpi che vediamo? E come cambia durante lo spettacolo?
Perché non è una coreografia? Cos’è una coreografia? Oggi le coreografie sono tante. Il termine non è più possibile riferirlo al solo balletto. E’ anacronistico. Il movimento dei danzatori che si muovono in scena, in questo lavoro, è per me assolutamente una coreografia. Si tratta di un insieme, molto lungo e ricco, di azioni quotidiane che abbiamo messo insieme costruendo delle sequenze personali.
La partitura alla fine è stata inserita nello spazio e con una precisa scelta di dinamica, peso, tempo diventando di fatto una coreografia. Si tratta di una struttura quasi matematica, molto veloce, di grandi e piccole azioni che si ripetono all’unisono o almeno in cui ognuno tenta, a proprio modo, di andare avanti, di arrivare alla fine.
Questo sistema, appunto coreografico, viene ripetuto per diverse volte e man mano perde pezzi, si frammenta, si rompe. Qualcosa, che sia un potere o una volontà singola, non permette che le azioni vadano avanti. Si creano dei buchi, dei vuoti nel già conosciuto, in cui sempre di più non rimane nulla. L’unica cosa che rimane è il corpo nella sua stanchezza e nel suo respiro.
Questo primo sistema coreografico, che noi chiamiamo “dittatura”, fa parte di un mondo di omologazione in cui siamo tutti apparentemente uguali, e dove ognuno tenta di trovare il suo spazio ma con la sola lingua che conosce, ovvero quella di questa partitura coreografica.
Questa prima parte viene poi interrotta bruscamente. Viene impedito che ci sia una catarsi, una evoluzione, una coerenza, proprio come ragiona la censura. All’improvviso ti toglie la possibilità di andare avanti e di esserci.
La seconda parte del lavoro, invece, prevede una coreografia completamente differente, così come sono diversi le luci e i costumi. Inizia un nuovo mondo. Una realtà dell’apparenza, del dover essere per forza in un certo modo, del dover piacere a qualsiasi costo, secondo canoni estetici precisi e di movimento piuttosto riconoscibili. Questa parte esploderà in un desiderio, o meglio in una necessità di andare oltre, di essere liberi e sé stessi, e non solo come quello che gli altri o il sistema ci richiedono.
Anche in questo caso ci sarà una interruzione brusca, un taglio, un impedimento di vedere la fine. La terza parte, dal punto di vista coreografico, è invece per i danzatori molto libera. Può essere in parte diversa ogni sera. Qui però, nuovamente, torna la coreografia della prima parte, ma i danzatori possono eseguirla come vogliono, andando a cercare la propria libertà.
Durante le prove ci siamo accorti che essere liberi all’interno di un proprio mondo, che forse non è per forza brutto e da rinnegare, non è così male. Cosa vuol dire essere liberi?
Il tutto è accompagnato da un partitura di parole, o meglio di titoli, proiettati sul muro come suggestioni, come capitoli. Una mappa che ognuno legge come più crede.
Isacco Venturini, uno dei performer, all’inizio accoglie il pubblico inserendo subito il lavoro in una condizione di non luogo e di assurdità temporale e spaziale. Canta in modo ripetitivo e ossessivo ma pacifico “Bye Bye Blackbirds”, tema che tornerà anche nella fatica e nella sua stessa stanchezza dopo aver ballato, ovvero nella condizione umana più esasperata e in cui lo “show must go on”. Successivamente Venturini inizia un monologo interiore, in cui lascia andare delle parole, delle riflessioni, dei punti di vista, delle tracce, un urlo e non certo delle spiegazioni. Il lavoro, in un certo senso, vuole porre delle domande, nascoste, per ognuno diverse.
Una delle frasi simbolo dello spettacolo è quella pronunciata da Lenny Bruce: “The Truth is what it is. What it should be is a dirty lie” (la verità è ciò che è. Ciò che dovrebbe essere è una sporca menzogna). Con che significato l’hai proposta nello spettacolo?
Sì, hai ragione, è proprio una frase simbolo del lavoro e della nostra ricerca.
Lenny Bruce, che più che un comico come lo intendiamo oggi, a mio avviso, era un artista che utilizzava l’ironia della parola per porre alla società delle questioni politiche scomode ma fondamentali. Ricordiamoci che negli ’70 lui parlava di razzismo, e non solo, in un modo che ancora oggi gli USA fanno fatica ad accettare. Quando Bruce disse questa frase venne arrestato. Fu durante un suo show a San Francisco. Bruce venne censurato ripetutamente, e anche in modo violento e subdolo. Perché? Faceva atti osceni? Diceva cose sbagliate, discutibili, non veritiere? Perché affrontava argomenti scomodi e li affrontava in modo diretto.
Lo abbiamo citato, e non solo in quella frase, come simbolo di artista censurato e anche come artista i cui spettacoli venivano interrotti, e perché le sue parole, seppur discutibili, fanno paura, e la censura e il potere lavorano con la paura e sulla propria stessa paura di perdere il potere.
Come dicevo prima, il lavoro si è lentamente rivolto verso noi stessi, alla nostra verità e alla verità che il sistema ci chiede di rispettare e accettare, sia per una pacifica sopravvivenza ma anche per un subdolo controllo.
Ma qual è la verità? Non solo quella sociale ma anche quella del nostro singolo io? Questa frase ci ha messo all’erta. Ci ha raccontato questo dover credere a qualcosa che forse non è reale.
Questo continuo desiderare e sperare in qualcosa che ci viene “venduto”, metaforicamente e concretamente, è un fatto reale o è una menzogna che non ci permette di essere davvero noi stessi, rimanendo in una continua speranza di redenzione e felicità?
“Bye Bye” è una creazione collettiva.
Sì, è una creazione collettiva perché il materiale coreografico e la creazione intera è nata da un continuo scambio, ma soprattutto ascolto, da parte mia dei corpi e delle storie dei performer, le quali mi hanno ispirato il gioco teatrale.
Il monologo e i titoli sono nati in un secondo momento. Ad un certo punto abbiamo capito che una certa parola poteva, in qualche modo, avere un suo peso. Linda ha ascoltato le parole di tutti e ha costruito un monologo che sintetizzasse il pensiero di tutti noi durante l’intero processo creativo, proprio come un urlo o un ennesimo tentativo di comunicazione. Quelle parole sono le parole di tutti noi. Le canzoni e le musiche sono nate da mie proposte iniziali, che poi il performer Isacco Venturini e il musicista Riccardo Di Gianni hanno cercato e messo insieme. Io chiedevo delle cose, lasciavo passare dei giorni, in modo che loro cercassero e studiassero, e poi ascoltavo.
Abbiamo con calma messo insieme i pezzi e scoperto dove questi potessero portarci, ma lo scopriamo ancora in ogni replica che facciamo.
Come hai lavorato con Linda Dalisi e con i cinque performer, che tra l’altro hai sottoposto a una prova molto dura?
Il lockdown ha stravolto la nostra ricerca e il processo dentro il quale eravamo. Durante il periodo di quarantena ho assegnato ad ogni performer dei compiti, delle ricerche che avrebbero dovuto consegnarmi ad inizio prove, ossia quando ci saremmo rivisti in presenza. Non abbiamo lavorato online, non posso farlo, non ne sono capace. Però con Linda Dalisi li abbiamo incontrati uno ad uno per svolgere una serie di interrogatori, stile polizia politica, per comprendere chi fossero e cosa – in un certo senso – nascondessero.
Una volta iniziate le prove ho guardato e ascoltato tutti i loro compiti. Abbiamo parlato e discusso parecchio sulle tematiche proposte. Linda Dalisi man mano raccoglieva dati, suoi personali e dei ragazzi, e costruiva una mappa concettuale che alla fine delle prove è diventata grande quanto una parete. Ogni giorno ognuno di noi poteva andare a guardare a che punto eravamo, o poteva aggiungere dei pezzi.
Ho chiesto ai danzatori di costruire delle partiture fisiche partendo da azioni quotidiane. Le hanno studiate da soli, si sono aiutati a vicenda, si sono censurati e corretti fra di loro, e solo ad un certo punto sono intervenuto io aggiustando, modificando, spazializzando e cercando un legame fra il tutto.
Linda mi ha seguito in tutto e ogni giorno, dopo le prove, nascevano con lei lunghissimi momenti di confronto, in cui mi aiutava a fare ordine e sintesi del tutto. Linda ha anche tenuto delle interessantissime lezioni a tutta la compagnia, in cui ci ha raccontato una sorta di storia della censura o particolari situazioni legate a specifici paesi o persone.
Abbiamo cercato di immergerci nella ricerca a tutto tondo, e man mano ognuno era implicato in una ricerca personale che ho chiesto di raccontare attraverso la danza.
La varie parti dello spettacolo sono nate ascoltando e scoprendo i mondi dei danzatori e i miei personali fantasmi che ogni giorno emergevano.
Hai in mente altri progetti?
Stranamente questo periodo, così assurdo e nuovo in un primo momento, mi ha messo terribilmente in crisi di fronte al dover creare per forza qualcosa, mentre adesso sta facendo nascere in me un fortissimo desiderio o necessità di portare fuori, raccontare…
Queste parole sono così già tanto usate e abusate da perdere forse ormai il loro reale significato. Forse però sì, ho un forte desiderio di cercare ancora. Naturalmente continuo la mia ricerca pedagogica nelle scuole di teatro dove insegno, se sarà ancora possibile insegnare in presenza [l’intervista è stata realizzata due giorni prima della chiusura dei teatri da DPCM, ndr]. Prossimamente avrò due importanti residenze, una a Trento, presso la compagnia Abbondanza Bertoni e un’altra a Catania, presso la compagnia Zappalà. Forse nascerà qualcosa con Oriente Occidente, ma vedremo. Saranno due momenti importanti, in cui rimetteremo in ascolto molte necessità ma soprattutto il presente e quello che ci sta accadendo.
C’è un forte bisogno di studiare e ascoltare e incontrare. Spero che “Bye bye” e altri progetti già nati possano continuare a vivere, sia perché è lavoro per me i miei danzatori, sia perché ritengo fondamentale che i lavori vivano e raggiungano più persone possibili ma questo non dipende solo da me.
Ad ogni modo siamo tutti in attesa di capire cosa accadrà e quali saranno i reali interessi affinché certa arte sopravviva. Noi, da parte nostra, ci siamo, forse più persi ma anche consapevoli di prima.
Bye Bye
Direzione e coreografia: Alessio Maria Romano
Creazione e performance: Ornella Balestra, Filippo Porro, Andrea Rizzo, Valerie Tameu, Isacco Venturini
Drammaturgia: Linda Dalisi e AMR
Disegno luci: Matteo Crespi
Progetto musicale: Riccardo Di Gianni
Costumi: Giada Masi e Salvatore Piccione
Assistente alla creazione: Riccardo Micheletti
Organizzazione: Eleonora Cotungo
Produzione: Lac Lugano Arte e Cultura
In coproduzione con: Torinodanza festival, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Nota: Lo spettacolo prevede scene di nudo
durata: 1h 20′
Visto a Lugano, LAC, il 22 ottobre 2020