La danza macabra di Danae XXV, da Francesco Marilungo e Jacopo Jenna

Danse Macabre (ph: Michela Di Savino)
Danse Macabre (ph: Michela Di Savino)

Nel festival diretto da Teatro delle Moire, le suggestioni politiche di Paola Bianchi, il dialogo con la luce di Rita Frongia e le provocazioni di Clara Delorme e Yasmine Hugonnet

Danae Festival prende il nome dal mito della fanciulla prigioniera in una torre per volontà di suo padre Acrisio, re di Argo, cui un oracolo aveva vaticinato la morte per mano del nipote. Danae non avrebbe mai dovuto sposarsi. Le era precluso l’amore, anche solo come vagheggiamento. Zeus la vide e se ne innamorò. Si trasformò in pioggia dorata, si unì a lei e nacque Perseo. La nefasta profezia su Acrisio ebbe così compimento.
Il nodo stretto tra repressione e femminilità, fato ed eros, bellezza aurea e innocenza, morte, fuga attraverso la creatività e divino rappresentato dal mito: è questo il filo conduttore della XXV edizione del festival milanese di danza, teatro, performance e suono organizzato dal Teatro delle Moire e diretto da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani. Le Moire, figlie di Erebo e della Notte, dipanano il filo della vita umana, caduca e sublimata dall’arte.

Ad avviare Danae 2023 è un’eterea Paola Bianchi, che aveva inaugurato la primissima edizione del 1999. Era il secolo scorso, e la performer, attiva ormai da 35 anni, riesce sempre a fornire attraverso il corpo una lettura lucidamente politica del nostro tempo.
Argentea nei capelli e nei costumi, dentro uno spazio asettico riempito solo di uno sgabello, Bianchi in “Fabrica / Corpi al lavoro” mette in scena una donna lavoratrice via via deformata, spersonalizzata, alienata e sacrificata. Siamo a Spazio Fattoria (Fabbrica del Vapore). La protagonista entra in scena con il suo codice femminile di forza, eleganza ed eros. È una sensualità subliminale inespressa, un anelito represso nell’isolamento. Questa figura marginale brancola ai lati della scena, reietta da un sistema produttivo autoreferenziale e spersonalizzante. La rivolta è vanificata da luci fredde e distanti, da musiche morbide, che presto cedono a rumori sordi fino a una serie di bip, come i singulti lugubri di una sala d’ospedale.
Spalle al muro. Pressioni velleitarie. Non basta pestare i piedi o puntarli per ritrovare centralità nella storia. Lo sfarfallio finale delle luci ci consegna una figura esangue ed esanime, piegata e piagata, prodotto di scarto delle disumane sorti e regressive della storia.

Una luce eroica è quella creata invece a Zona K da Rita Frongia. Che in “Etoile & Star” gioca con gli attraversamenti e i paradossi. E allora, nella prima parte fa danzare Stefano Vercelli, attore romano di lungo corso (ha lavorato con Grotowski e Barba); nella seconda parte fa invece recitare la danzatrice americana Teri Weikel.
Due pezzi distinti, animati rispettivamente dalle luci di Luca Serrani e Daniele Ferri. Ironia e leggerezza sono i tratti che li accomunano.
Vercelli gioca con i suoi lunghi anni e gli altrettanto lunghi capelli canuti e scarmigliati che ne fanno un essere spiritato in tutù, una falena immateriale fuori posto. Performance di guaiti e respiri, giochi d’ombre e musiche da carillon, impreziosite da luci immateriali. Questa figura bizzarra e senza tempo riemerge in elegante kimono da una favola remota, in cerca di bagliori vitali.
I colori fanno capolino nella performance di Teri Weikel, incerta tra suoni sinistri. Anche qui preziosità tecniche: un’ombra si apre come uno squarcio su un drappo, e ne appare una sagoma femminile illuminata. Dalle tenebre può nascere un chiarore folgorante: il tramonto di una diva può essere esplosivo come una supernova.
Dove finisce il movimento, e dove inizia la danza? Agire ci cambia. Persino la gestualità con cui illustriamo una banalissima ricetta può essere artistica. Teri Weikel danza mentre condivide la ricetta delle sarde a beccafico. Rita Frongia sdogana l’arte nascosta nel quotidiano, la bellezza dinamica di cui siamo inconsapevoli portatori sani. L’incanto sta negli occhi di chi sa guardare.

Tessuti fra movimento e danza, fra teatro, performance, luci e musica. Tessuti anche tra Danae e la comunità che la attornia. Ecco la manipolazione tessile di Federica Terracina in “Abito Sonoro_Play the space”, che trasforma lo Spazio Fattoria in teatro di comunità, riempiendolo di colori, simboli, storie, evocazioni.

I colori si spengono invece al Teatro Out Off con “Stuporosa” di Francesco Marilungo. Restano le luci di Gianni Staropoli ad esprimere il lutto come esperienza collettiva, a creare vasi comunicanti tra palco e platea. C’è il ricordo, e forse il rimpianto, di un Sud arcaico, dove la morte non avveniva in solitaria come nell’epoca Covid che ci stiamo lasciando alle spalle, non era demistificata o rimossa come in questo scorcio di secolo, ma era esperienza cosciente che raccoglieva la comunità.
Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce sono in scena cinque prefiche dallo spirito compassato, dai lunghi abiti a campana sfarzosi, che con il loro nero atavico e appariscente riempiono di lugubre la sala. Esse ruotano come dervisci, scivolano scalze e impassibili sul palco quasi avessero le rotelle ai piedi, creano la loro danza a un passo dal pubblico.
C’è il senso della condivisione e del rito, manca il valore eucaristico. Il pathos è forma che non emoziona, così come il compianto funebre. Le performer sono delle controfigure del dolore, e resta il mistero di queste sagome distanti, inattingibili come statue, inespressive come sfingi, automi che vivono per la loro funzione rituale.
Quello di Marilungo è più un lavoro antropologico che spirituale. Le prefiche erano custodi di una spettacolarizzazione del dolore lontana dalla sacralità.
Bisbiglii. Melodie arcaiche. Qui c’è il valore aggiunto del canto a cappella in grico, la lingua della Grecìa salentina dalle radici antichissime. Vera Di Lecce, musicista e performer che avvia i canti e le musiche dal vivo, se ne fa latrice. Le coreografie sono fascinose, dalle danze con il fazzoletto a quelle con una gigantesca treccia chilometrica.
“Stuporosa” è una danza meticolosa, accuratissima, che nasce dalla ricerca sul campo e certifica il talento artistico di Francesco Marilungo. Resta insoluto il paradosso iniziale. Questo lavoro nasce dall’esigenza di restituire dignità alla morte e consapevolezza comunitaria all’elaborazione del lutto. Ricorre tuttavia agli stilemi di un’epoca in cui il compianto delle prefiche era espressione non della coralità che conforta il dolore, piuttosto di una teatralità che poco aveva di religioso, anche in senso laico.

Il secondo weekend di Danae vede al centro un focus dedicato alla danza svizzera al femminile, in collaborazione con la Pro Helvetia Istituto Svizzero.
Al Teatro Out Off, “Danse Macabre” del coreografo toscano Jacopo Jenna si rifà a un topos tra i più celebri dell’iconografia medievale (famosissima la “danza macabra” di Clusone, sopra Bergamo, sulla facciata esterna dell’Oratorio dei Disciplini) che vedeva danzare insieme uomini e scheletri, prefigurando ed esorcizzando la morte. Jenna ne mette in scena tutte le possibili suggestioni, iniettandole nella contemporaneità. Attraverso la commistione di corpi danzanti (Ramona Caia, Andrea Dionisi, Francesco Ferrari, Sara Sguotti), immagini, testi, musica elettronica e luce, la performance mira incessantemente allo spostamento percettivo dello spettatore. Che viene bombardato con scritte colorate, riverberi di opere cinematografiche e rimandi alla figura della regista francese Agnès Varda.
Lo spettacolo, per mezzo anche delle suggestioni proposte dall’artista Roberto Fassone, crea una sorta di variegato immaginario sul tema dell’Aldilà, che nella seconda parte contamina i corpi dei performer con posture che riecheggiano figurativamente il cinema horror e le opere del pittore olandese Hieronymus Bosch.

Clara Delorme in L'albatre (ph: Michela Di Savino)
Clara Delorme in L’albatre (ph: Michela Di Savino)

Convincenti, nei diversificati spazi di Spazio Fattoria alla Fabbrica del Vapore, i pezzi coreografici di due artiste svizzere di diversa generazione: l’emergente Clara Delorme, accompagnata da Christian Garcia-Gaucher, e la celebrata Yasmine Hugonnet.
Delorme, dopo essersi misurata con diverse compagnie di danza, ha avviato anche un proprio percorso artistico che è sfociato in due creazioni personali: “Malgrés” in scena con Christian Garcia-Gaucher e “L’albâtre”. In entrambi i lavori la danzatrice mette a nudo il suo corpo per mostrarci fragilità e potenzialità.
“Malgrés” mette al centro i fallimenti, le tante lettere di rifiuto ricevute in passato. Agghindata con grandi orecchie, Delorme dialoga con i suoni proposti dal musicista Garcia-Gaucher, che interrompono il flusso coreografico. Dopo un iniziale momento di pausa, la giovane artista si muove con coerenza e studiata fatica nello spazio scenico, testimoniando l’intima forza e grazia della sua gestualità.
In “L’albâtre” il corpo nudo della performer, coperta solo da un paio di occhiali, si muove invece lentamente davanti all’occhio dello spettatore su un quadrato bianco, rimandando tra umano e animale all’uccello reso celebre da Baudelaire.

Della danzatrice e coreografa Yasmine Hugonnet apprezziamo “La Peau de l’Espace”, creazione vincitrice del “Prix du Spectacle Suisse de Danse 2021”. L’artista si muove nello spazio descrivendo soprattutto a voce in modo minuzioso tutti i suoi movimenti, nell’intenzione più volte espressa di considerare il luogo dove i suoi gesti via via si posizionano come una specie di pelle.
“La Peau de l’Espace” è un manifesto del gesto danzato. Hugonnet pone allo spettatore continue domande: dove comincia e dove termina la danza? Che cos’è un corpo situato? Come rendere visibile la gravità? E la leggerezza? Qual è lo scambio di informazioni che desta il corpo del performer con il pubblico?
Il nostro sguardo segue l’artista sia partecipando alle varie possibilità che il suo corpo possiede, sia rappresentandone le suggestioni che scaturiscono nel nostro immaginario. Così facendo, ci rende partecipi su ciò che frulla nella testa del creatore che intende proporre un suo pezzo, le sue intenzioni, i suoi dubbi: i pensieri propulsori – dunque – che animano il suo lavoro.

Weekend finale del festival con tre prime nazionali. Elisabetta Consonni (“Missing Outs”) sarà di scena sabato 4 novembre alle ore 20.30 al Teatro Out Off. Domenica 5 novembre, allo spazio Mosso, chiusura con Camilla Barbarito e Paolino Dalla Porta (“Le tue parole all’improvviso” ore 16 e 18.30) ed Ernesto Tomasini (“Degenerata!”, ore 20.30). Inoltre focus sull’arte di Chiara Bersani, premio Ubu 2018, sabato 4 allo Spazio Fattoria, alle ore 19.

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