La danza rarefatta di Danae XXI tra architettura industriale e musei

La Live Session di Matita (photo: Michela Di Savino)|Clorofilla di Alessandra Cristiani (photo: Michela Di Savino)|Concerto (photo: Michela Di Savino)
La Live Session di Matita (photo: Michela Di Savino)|Clorofilla di Alessandra Cristiani (photo: Michela Di Savino)|Concerto (photo: Michela Di Savino)

Rarefatta e impalpabile, Danae 2019 vira decisamente verso i linguaggi di performance e danza. Le parole sono sottili e centellinate. Danno spazio all’icasticità essenziale, mordace e delicata, del gesto.
Un lavoro meticoloso, intimo e segreto sul suono sostiene la drammaturgia del movimento.

Il set post-industriale, algido ed esteso, di Spazio Fattoria alla Fabbrica del Vapore; l’avvicendarsi delle stagioni; la natura e le sue trasformazioni; la vita che prevale sul torpore notturno. Ripiegata e schiacciata su sé stessa come un seme, Alessandra Cristiani in “Clorofilla” sprigiona energia dal proprio corpo nudo che nasce e si copre di orpelli cangianti nella penombra scalfita dalla luce. La scena è un enorme rettangolo ai cui lati si dispone il pubblico. A momenti, la luce è quella artificiale che penetra dall’esterno attraverso le ampie vetrate, nel buio di una serata autunnale. Il corpo dell’attrice diventa autoesplorazione e perlustrazione. La carne modellata dal tempo modella a sua volta lo spazio. La performer incarna e anatomizza la poesia di Marcello Sambati da cui trae spunto, e la sprigiona con l’ausilio delle luci di Gianni Staropoli. Qualche sovrascrittura (una voce fuori campo, il progetto fotografico peraltro raffinato di Daniele Vita, con la forma umana in cui confluiscono identità animale e mondo vegetale) rischia talvolta di depotenziare il lavoro.

Clorofilla di Alessandra Cristiani (photo: Michela Di Savino)
Clorofilla di Alessandra Cristiani (photo: Michela Di Savino)

Un ensemble acustico dove il suono elettronico si lega a quello artigianale, e il piano elettrico dialoga con ancelle bislacche quali penne, matite e pennarelli. Un’estrosa proposta d’arte interattiva con schizzi, segni e disegni – dal vivo e in video – che fanno sentire la propria voce grazie a un tavolo microfonato. Dentro questo percorso sinestetico, il pubblico è coinvolto non solo come spettatore. E infatti “Live Session” dei Matita, a Zona K, è un immaginifico concerto a colori capace di affascinare bimbi e adulti.
Matite e pennarelli, e il fruscio dei loro tratti sulla carta bianca; lo stridore soffice dei temperamatite; il dialogo e l’interazione tra i linguaggi ritmico, visuale e sonoro: il segno su carta diventa graffio, nastro, fiocco.
L’arte intesa come rappresentazione e forma del bello, l’idea dell’arte come dimensione di senso e prodotto di un’attività manuale coltivata e finalizzata, qui sembrano venir meno. Per quest’approccio asistematico, fortemente ludico, le creazioni dei Matita uniscono l’estetica naif e un approccio dadaista, anche se la base live al piano di Antonello Raggi (che dà il la al concerto) rivela una sensibilità musicale degna di nota. Con Raggi, divertono Fabio Bonelli e Francesco Campanozzi a matite penne e pennarelli, e Daniele Spanò ai visuals.

Dalla disorganizzazione autoreferenziale alla coordinazione armonica. “If, If, If, Then” di Jacopo Jenna, negli atri espositivi del Padiglione d’Arte Contemporanea, è una performance «probabilistica», «un algoritmo dell’evoluzione». I suoni geometrici di Caterina Barbieri creano onde minimaliste. Da esse nasce una coreografia poliritmica, stilizzata, che i tre danzatori (Nawel Nabù Bounar, Andrea Dionisi e Sly) trasformano in immagini via via meno astratte. Dalla quiescenza allo scuotimento, alla frenesia nevrotica. Dalla street dance alle pratiche più contemporanee, con irruzioni nella ginnastica artistica e nella danza acrobatica. Il percorso evolutivo tracciato da Jenna è nel segno dell’ibridazione. Da disarticolata, la danza si fa rotonda e aperta, fino ad assumere una forma corale di rito e preghiera. Le individualità deflagrano in un placido naufragio di corpi intrecciati.
Una danza che non è mai ripetitiva o statica. Lo sguardo dello spettatore, segue, interagisce, asseconda, non si stanca mai.

Un’ironia sottile fatta di scompaginazione di stereotipi e capovolgimenti delle dinamiche di genere accompagna “Concerto” di Francesco Michele Laterza, in scena a Zona K con Floor Robert. Il passaggio dalla dimensione onirica all’atto realizzativo, così difficile da tradurre in arte: le scene si susseguono confuse. La loro scansione in canzoni accompagnate dalla chitarra, in gesti performativi, è altrettanto confusa, forse perché confusi sono i sogni, e ancora più confuse sono le tracce che restano nella memoria. Il risultato è un bizzarro teatro-canzone intriso d’ironia e nonsense, sguardi disorientati alla Buster Keaton, occhi allucinati alla James Finlayson, che rendono la performance sapida ed estrosa.

Concerto (photo: Michela Di Savino)
Concerto (photo: Michela Di Savino)

“Avalanche” di Marco D’Agostin, in scena a Spazio Fattoria con Teresa Silva, è un percorso di scavo negli archivi della memoria. In questa danza irrelata in cui i corpi disegnano orbite indipendenti che di rado si lambiscono, avvertiamo un senso di minaccia, ma anche la capacità di liberarsene. Le chance di sopravvivenza si legano ai ricordi. Lo spazio è esplorato, battuto, percosso, in cerca di un quid in(de)finito. I due performer si agitano, sostano, sciolgono. Episodicamente, si sovrappongono e confondono. Lasciano spazi vuoti e li riempiono subito dopo. Intrecciano, in questa ricerca incessante, anche i codici e i suoni di cinque lingue europee – italiano, inglese, francese, spagnolo e portoghese – smarrendosi nelle loro discordanti musicalità, pizzicate come le corde di un basso.
“Avalanche” è osservazione dello spazio bianco, ricerca degli abissi della mente, investigazione delle sonorità linguistiche. È danza nel passato alla ricerca del futuro, provando a dissipare gli agguati della solitudine.

Oggi e domani, domenica 3 novembre, a Zona K, Filippo Michelangelo Ceredi con “Eve#1” accosta, attraverso le immagini, eventi cruciali di questo scorcio di XXI secolo.
L’epilogo di Danae è al Teatro Out Off. Ancora domenica 3 novembre in “We want Miles in a silent way”, gruppo nanou omaggia l’icona del jazz Miles Davis.
Intrigante “Chro no lo gi cal”, mercoledì 6 novembre, lavoro intimistico sul corpo della performer svizzera Yasmine Hugonnet. In coda allo spettacolo, talk con l’esperta di linguaggi contemporanei Piersandra di Matteo.
Musica e poesia saranno protagoniste, sabato 9 e domenica 10 novembre, di “Porpora”, con Mariangela Gualtieri e il pianista Stefano Battaglia.
Il 9 novembre a DiDstudio (Fabbrica del Vapore) spazio anche alla riflessione con “Laterale”: il critico Attilio Scarpellini dialoga con gli artisti Alessandro Bedosti, Cinzia Delorenzi, Francesca Proia e Silvia Rampelli.
Infine mercoledì 20 novembre, alla Fondazione Mudima, la danza butoh del maestro giapponese Masaki Iwana chiuderà il festival.

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