La rassegna di danza contemporanea del Teatro della Tosse presenta nei prossimi giorni Kor’sia e, ad aprile, Akram Khan
Incontriamo a Genova Marina Petrillo, co-direttrice artistica di “Resistere e Creare”, rassegna di danza contemporanea nata nel 2015, in seno al Teatro della Tosse, con Michela Lucenti di Balletto Civile.
Petrillo ci racconta passato, presente (e futuro?) di un progetto che ha radici solide e ben radicate nella tradizione storica della Tosse, sperimentale e innovativo per sua natura, con uno sguardo plurale verso molti panorami: il territorio, l’internazionalità, la ricerca, la danza popolare, l’antropologia e il linguaggio universale del corpo.
I prossimi appuntamenti di “Resistere e Creare X Origini”, che ha già ospitato, tra gli altri, “Y.O.L.T” di Manuel Ronda, “Sport” di Salvo Lombardo e “My body is your body” di Overhead Project, sono “Ig’ra” di Kor’sia, pluripremiata compagnia con base a Madrid diretta dai danzatori-coreografi Antonio de Rosa e Mattia Russo, in scena il 15 marzo con questo allestimento visivo di forte impatto visivo e scenico intessuto sul “gioco” serio della danza rievocato dall’immaginario di Nijinsky e dei Ballets Russes, e “Chotto Desh” del grande Akram Khan, sul palco genovese il 20 e 21 aprile.
Arrivati alla decima edizione, in qualità di direttrice, ma anche di spettatrice, cosa puoi dirci della rassegna?
Si parla di qualcosa in costante evoluzione. Siamo partite, nel 2015 con Michela Lucenti, ragionando come spettatrici su quello che avremmo voluto vedere e che mancava nel panorama cittadino. Nella nostra idea un atto di resistenza culturale, da qui il nome “Resistere e creare” – da “Resistere è Creare” di Florence Aubenas e Miguel Benasayag – che passando attraverso il corpo compie una resistenza oggettiva alla decadenza che ci circonda, molto edonistica e poco di contenuto, in favore di un qualcosa di più sanguigno, il corpo per l’appunto, che implica una concretezza nell’agire, o per dirla con altre parole un corpo politico.
Così è nata REC e sette anni di co-direzione insieme a Michela Lucenti, iniziati con la riforma del FUS del 2015, che ha cambiato il panorama teatrale italiano con l’istituzione dei TRIC e dei Teatri Nazionali.
Con Michela abbiamo pensato ad una programmazione che fosse coerente con il DNA più profondo del Teatro della Tosse, che negli anni ha sempre scelto di lavorare con il teatro fisico, nella purezza della grande danza contemporanea o ibridato col circo, con la sperimentazione più contemporanea, visiva, non testuale (Lindsay Kemp, Maguy Marin, Lia Rodrigues, Momix, Mummenschanz , Philippe Genty, Jan Fabre, Victoria Chaplin, Jean-Baptiste Thierrée, il Teatro Nero di Praga, Familie Flöz, Jerome Savary, Raphael Boitel, Les Sept Doigts de la Man, La Fura dels Baus, Acrobat, Wim Vandekeybus James Thierrée), andando verso un altro “paesaggio culturale” che è quello internazionale, e la frammentazione tra i vari generi sempre più sfumata, in un intreccio fra tutte le arti performative dal vivo, a cui si aggiunge una fortissima componente visiva.
Nonostante la forte vocazione internazionale, sembra rimanga sempre un’attenzione particolare verso il territorio.
Da subito ci è parso importante trovare un modo per mettere nuovamente a sistema la danza a Genova. Ci sembrava potesse essere il giusto stimolo per una nuova fioritura cittadina. Sapevamo, avendo incrociato nella nostra vita professionale “la danza genovese” che da sempre è stata una ricchezza della città che però, chiusa l’epoca d’oro dei balletti di “Nervi” non era diventata sistematica (stagione, rassegna, o festival) – fatta eccezione per alcuni passaggi al Carlo Felice, al Politeama o all’Archivolto e per alcuni anni con il festival di danza urbana “Corpi Urbani”. Ci sembrava potesse essere il giusto stimolo per una crescita per le compagnie di danza con cui collaboravamo a vario titolo e per tutto quello che ancora poteva nascere e ancora dovevamo scoprire. E la risposta da parte del territorio, c’è stata, eccome! Talvolta un po’ scomposta, irregolare, difficile da incasellare, diversissima nelle proposte ed estremamente vitale.
Facci degli esempi…
Sono nate nuove collaborazioni come quelle con Natalia Vallebona, Mechanical Monkeys, Federica Loredan; si è consolidato il legame con DEOS, che dall’autunno 2021 è stabilmente in residenza al Teatro del Ponente con il progetto di Alta Formazione “AZIONE SILENZIOSA”; è proseguito il lavoro di Danzare Oltre (Claudia Monti e Nicoletta Bernardini) e di Piera Pavanello.
In quanto istituzione territoriale “di rilevante interesse culturale” è nel nostro “mandato” lavorare sulla prossimità, un po’ come il vento che porta i semi, semi che vanno da tutte le parti e in alcuni luoghi possono attecchire e far nascere cose nuove, anche parallele o integrate al nostro lavoro.
O ancora, per essere meno poetici, come il gioco del piccolo chimico: creare reazioni, cercando di avere l’accortezza di trovare sempre un buon punto di osservazione per poter guardare meglio cosa succede.
Accanto a questi nuovi stimoli ha avuto sempre molto spazio la danza internazionale.
E’ sempre una questione di chimica. Nel 2022 la direzione artistica di Resistere e Creare è diventata internazionale con Linda Kapetanea e Jozef Frucek (RootlessRoot), che avevamo ospitato nel 2015, primissima edizione del festival, il cui lavoro integrato tra creazione e formazione e programmazione ci è particolarmente vicino.
Grazie a loro abbiamo ulteriormente rafforzato l’apertura al panorama internazionale, anche se siamo convinti che tutto questo sia di fatto molto normale dato che la danza è internazionale di suo: è comune che i performer abbiano lavorato o si siano formati un po’ ovunque in Europa. Accadeva già in passato, e nel presente è un fenomeno ancor più radicato.
Nel superamento dell’etichetta “danza” verso altre soluzioni, quali sono le soluzioni possibili?
Penso alla scrittura fisica di Michela Lucenti che oltre alla danza porta in scena la musica, l’arte visiva e la parola; o ancora a Roberto Castello che, parallelamente alla creazione artistica, stimola occasioni di riflessione e confronto attraverso programmazioni multidisciplinari, residenze, produzioni e “93% – materiali per una politica non verbale”, una piattaforma di riflessione, confronto, e scambio di materiali sul linguaggio non verbale. O ancora a Salvo Lombardo (Chiasma), che per sua stessa definizione è “cross-mediale” o a Lara Guidetti (Sanpapié) che “rinuncia alla carta e alle definizioni” e a Tim Behren (Overhead Project), che lavora liberamente tra la danza e il circo e la sociologia visiva. Esiste, mi pare, uno sguardo trasversale sulla realtà che unisce gli artisti “performativi”, al di là delle distanze e delle differenze culturali e linguistiche, e che crea una lingua comune, una sorta di esperanto fatto di carne e non di parole… il corpo stesso.
Immagino che l’evoluzione naturale di questo linguaggio così squisitamente fisico e a così alto impatto visivo e sonoro sia la nuova scena che avanza e rompe tutte le etichette per diventare “opera performativa” a tutto tondo, e forse tornare ad essere semplicemente “teatro” senza ulteriori definizioni di genere.
Quali sono state le edizioni più sfidanti, le più “difficili”?
Sicuramente le due edizioni pandemiche, “Corpi elettrici” del 2020 e “Vietato ballare” del 2021, nelle quali abbiamo dovuto “adattarci” ai limiti imposti dalle norme anti Covid e, nello stesso tempo, farci sentire in un momento di grande sconforto per l’intero comparto dello spettacolo dal vivo.
Con “Corpi elettrici” noi eravamo qui in teatro per davvero a fare azioni dal vivo in spazi abitati solo da artisti e operatori, come in una sorta di perenne prova generale, e in questa condizione abbiamo cercato di mantenere saldo il rapporto sia con gli spettatori, nel vuoto/pieno dei mondi digitali, sia con gli allievi dei nostri corsi, sia con i collaboratori, le compagnie, i docenti dei corsi, le maestranze, la città, e anche ad allargare lo sguardo sul mondo per vedere che succedeva più in là in una condizione “mondiale” di sospensione in cui tutto sembrava sfuggire a qualsiasi sistema predittivo.
Il sentimento comune di terribile angoscia, il fermarsi continuando ad andare avanti nella schizofrenia di un fare tra moti carbonari e trincea…
In tutto il mondo si è cercato il modo di trasferire sul digitale i contenuti “vivi” e alla fine, non senza conflitto sul se e come farlo, l’abbiamo fatto anche noi. Di fatto non ci interessava portare online lo spettacolo dal vivo, un po’ perché con la danza non ci sembrava possibile se non realizzando video/documentari/film, ma un po’ anche perché il broadcasting attraverso internet di uno spettacolo l’avevamo già fatto nel 2000, con “Il pazzo e la monaca”, regia di Sergio Maifredi, trasmesso online dalla sala Campana e quindi vent’anni prima.
Ragion per cui ci siamo detti: siamo affascinati dal concetto di danza digitale ma siamo anche consapevoli che quello che possiamo fare meglio in questo momento, cercando di creare una vera condivisione attraverso il web, è parlare, dialogare, confrontare le nostre esperienze tra operatori, esperti e spettatori, spostare la comunità reale e le istanze reali sui canali “social” e cercare di non precipitare nel vuoto.
“Corpi elettrici” è stata un’edizione intensa e incredibile e uno dei momenti più importanti è stata la tavola rotonda finale. A un certo punto ci siamo chieste: quando mai può ricapitare di avere tutte quelle persone lì sedute contemporaneamente allo stesso tavolo, tra tavolo fisico e tavolo digitale? Un momento veramente prezioso, con contributi nazionali ed internazionali. Una specie di miracolo accaduto al momento giusto grazie ad Elisa Sirianni che ne ha curato i contenuti e ideato la struttura.
E poi quella dell’anno succressivo…
L’altra edizione, quella del 2021, la chiamammo “Vietato ballare”, proprio perché, nonostante la riapertura delle sale seppure contingentate, tutto si poteva fare tranne ballare; un’edizione realizzata quasi totalmente all’aperto, perché fuori era decaduto l’obbligo della mascherina e le restrizioni si erano fatte meno rigorose. Ironicamente, le restrizioni sul distanziamento e sulle mascherine saltarono pochissimi giorni dopo il nostro ultimo evento della rassegna di quell’anno, “Traces” di Wim Vandekeybus. E fu in quell’edizione che decidemmo di aprire con più decisione anche alla danza popolare, partendo da una domanda: perché i ragazzi vanno a ballare ma non vanno a vedere la danza a teatro? Noi avevamo ancora nelle orecchie “Discoteca labirinto” dei Subsonica o “i dervishes turners” di Battiato, volevamo fare la danza come le discoteche ma anche come le feste di paese, una danza partecipata, dal momento che la partecipazione è sempre stato al centro della relazione tra “attore” e “spettatore”, una relazione che necessita di cura e di vicinanza. Lo vediamo anche negli incontri che organizziamo: le persone hanno voglia di ascoltare, sentire, chiedere, capire… La danza dovrebbe essere così, perché è così nella sua genesi: la danza è rito, e il rito è partecipazione. Non esiste una cultura a noi nota che non abbia tra le forme espressive “di comunità” la danza e in generale forse non esiste particella vivente che non danzi, come una vertigine.
Il titolo che avete dato al REC di quest’anno è “Origini” e ha molto a che fare con questo concetto. Quali sono le istanze ci stanno dietro?
Con ReC abbiamo attraversato tutti i corpi possibili, corpi resistenti, elettrici, combattenti, quelli che raccontano storie antiche, quelli resilienti, quelli partecipati. Lo abbiamo fatto consapevoli del nostro vivere in un’epoca in cui il corpo è al centro della riflessione: un involucro da tenere bene, curare, lucidare, mentre ci smaterializziamo nella rete, nel computer, nei cellulari come se non fossimo fatti di carne ma di “rappresentazioni” binarie, formule matematiche. E mentre perdiamo connessioni nell’iperconnettività sappiamo però che è il corpo, questa buccia/involucro/carrozzeria che ci porta a spasso, lo strumento attraverso il quale facciamo conoscenza del mondo e degli altri.
Dovremmo fare lo sforzo di prestare attenzione ai segnali che arrivano, affinare gli strumenti che ci permettono di percepire noi stessi e gli altri, ritornare verso le origini che danno il titolo a questa edizione: dobbiamo rimaterializzarci, tornare dentro questi corpi e abitarli fino in fondo, cercando di essere quello che siamo, in relazione con il dove siamo, con il cambiamento, col tempo che ti rende meno performante ma ti può rendere molto più forte, molto più incisivo, più efficace.
Prendi ad esempio Tadashi Endo (classe 1947): per il danzatore Butoh la danza si distilla nel tempo talmente tanto che il danzatore può trasmettere il massimo dell’insegnamento nella sua dimostrazione più alta avendo acquisito sapienza nella cura quotidiana, non basata su acquisizione di punteggi sociali o su consolidamento di status quo, ma sull’esperienza del vivere, istante dopo istante.
Come possiamo fare questo salto e tornare nei nostri corpi?
Quello che personalmente mi sembra di sentire intorno a me e in me, è un grande sconforto accompagnato da un altrettanto grande senso di impotenza. Incapaci di ridurre lo stress a cui siamo tutti sottoposti e sconfortati perché, nonostante quello che ci ha insegnato la storia, con la memoria che ci portiamo nel corpo, nulla sembra cambiare, e siamo ancora qui con il sangue sulle mani, tra guerre, devastazione del pianeta, rigurgiti di nazionalismo, genocidi e morti in mare.
Tornare alle origini vuole forse dire tornare a pensare a noi in termini di comunità, di come possiamo vivere meglio insieme e di cosa lasceremo al futuro, quale “legacy” per usare un termine caro ai progettisti. Riprendiamoci la forza immaginativa, usciamo dalla prospettiva sconfortante che l’unico futuro possibile sia l’Apocalisse, anche se preferiamo usare il termine “distopico”. Ma che fine ha fatto la curiosità, il sognare, immaginare mondi altri? Forse, se ci riavviciniamo davvero attraverso i corpi, allora riusciremo a ritrovare parti perdute nel giro di criceto della produzione neoliberista e osservare meglio quello che il “soma”, con tutti i suoi recettori e canali, ci permette di percepire in ogni gesto.
Ecco che quindi con questo ReC “Origini” si vuole provare a ritornare non solo al corpo, ma anche alla percezione del gesto puro. Non a caso, la rassegna è attraversata da “Sema” di Linga, una sorta di rito che prende ispirazione dalla danza dei dervisci rotanti, in cui ci si trova a fare il tifo per i danzatori stremati dal vorticare della danza, e sarà chiusa dal lavoro di Claudia Castellucci “Verso la specie”, che indaga verso la parte più animale del nostro essere, quasi un cammino verso le nostre strutture più antiche e istintuali.