L’incendio doloso di venerdì notte (su Facebook abbiamo pubblicato le foto realizzate il sabato mattina, quando ancora usciva fumo dall’edificio e l’odore acre invadeva il quartiere) ci fa tornare oggi con urgenza a trattare dello splendido complesso della Cavallerizza Reale, un gioiello nel centro di Torino grande quanto un intero isolato sul cui futuro aleggia la più totale incertezza.
La Cavallerizza Reale fa parte della “zona di comando” del capoluogo sabaudo che riunisce storicamente tutti i centri del potere torinese, dal Duomo e da Palazzo Reale fino al Regio e all’Accademia. Lo storico complesso, un vero e proprio gioiello barocco anche se non concluso rispetto al progetto originale dell’architetto Alfieri, era nato per educare i giovani nobili, in sostanza la futura classe dirigente dello Stato.
Dal 1997, l’intero stabile con annessi giardini è stato dichiarato, insieme alle residenze sabaude, Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco.
Oggi hanno tutti un’idea su ciò che la Cavallerizza potrebbe e dovrebbe diventare, ma paradossalmente ciò che si muove è solo il lento degrado che continua a fiaccarne la già compromessa struttura: soltanto pochi giorni fa un incendio doloso ha quasi distrutto l’ala dei Beni Demaniali aggiungendo un ulteriore indecoroso episodio alla più generale tragica storia di abbandono.
Noi di Krapp ci eravamo entrati in sordina prima dell’incendio (che peraltro ha toccato un’altra ala del complesso), per realizzare il reportage fotografico che vi presentiamo oggi, lontani sia dai discorsi rassicuranti delle istituzioni sia dalla colorata autogestione degli occupanti.
Siamo saliti su per il maestoso scalone che conduce ai piani superiori della Cavallerizza e siamo rimasti per qualche ora a registrarne la vita segreta: ampi corridoi e decine di appartamenti lasciati come si lascia la propria casa durante un terremoto, finestre che sbattono ritmicamente creando vortici e surreali correnti d’aria, porte che sono state murate insieme alle tante piccole storie degli sconosciuti che una volta le hanno aperte.
Così è capitato di indugiare su piccole cose, dettagli di ogni giorno e che ci appartengono: in mezzo a detriti di ogni tipo, una teiera messa sul fuoco, una bomboniera a forma di carrozza lasciata sul pavimento, un’immaginetta della Madonna sulla cucina di una famiglia calabrese, i colori a tempera nell’appartamento di un pittore, gli sci nell’appartamento dell’alpinista, la collezione di alcolici dell’ubriacone, il vestito da sera della subrette…
Tante piccole storie di donne e uomini che sono transitati da lì e di cui restano solo tracce scomposte, sotterrate da detriti di ogni sorta e di quando in quando sconvolte dal vento impetuoso che domina l’edificio. Di voci ce n’è solo una, ed è la sua.
Poi improvvisamente ci siamo resi conto di dove eravamo: la Mole Antonelliana campeggiava appena fuori dalle finestre, come a ricordarci il cuore storico di Torino e non l’inferno di una zona di guerra.
Allora forse qualcosa in più l’abbiamo capito: quando si parla di cultura si dovrebbe invece parlare di “coltura” e noi tutti cittadini dovremmo essere coltivati e colti come fiori in un rigoglioso giardino. La cultura non si fa forse (solo) nei salotti e nei sofisticati programmi delle stagioni teatrali, ma la si fa a partire proprio da qui, dalle persone e dai più piccoli e insignificanti dettagli di ogni giorno.
Alla legittima obiezione che comunque servono pur sempre i soldi per fare cultura, viene da rispondere come rispose un celebre filosofo: «Sarà l’arte a generare denaro», a patto che quest’arte non si perda nei deliri narcisistici dell’ultimo arrivato, e nemmeno si atrofizzi nelle rigide morse del potere. Ciò che serve alla Cavallerizza è un’idea.
Quel filosofo si chiamava Martin Buber, e se la sua carriera politica si interruppe presto e le sue idee rimasero sotterranee e inascoltate, è però anche vero che divenne uno degli intellettuali più importanti del secolo scorso.
La Cavallerizza dovrebbe essere un simbolo, ma non di una qualsivoglia rivoluzione cittadina, né di un ennesimo progetto culturale di Stato, bensì il simbolo di una coltura che si pratica educando e seminando. Di questa educazione che parte dalla terra l’arte è la via maestra.