Hystrio festival: lo sguardo delle nuove drammaturgie sul contemporaneo

Tindaro Granata con i cinque drammaturghi under 35 (ph: Gabriele Lopez)
Tindaro Granata con i cinque drammaturghi under 35 (ph: Gabriele Lopez)

Premio Hystrio-Scritture di Scena 2023 a “Ma-Donna” di Camilla Dania. Tra i lavori migliori selezionati, l’omaggio di Chicco Dossi a Enzo Tortora e la performance “lapidea” di Giulia Odetto

La folata delle nuove drammaturgie su Hystrio Festival (13-18 settembre), preludio di fine estate alla nuova stagione teatrale. Al Teatro Elfo Puccini di Milano, il trimestrale diretto da Claudia Cannella ha assegnato il Premio Hystrio-Scritture di Scena 2023 a “Ma-Donna” di Camilla Dania: una bordata contro machismo, sessismo e patriarcato. Ed è proprio questo uno dei fili conduttori del festival, insieme alla rivisitazione della mitologia in chiave contemporanea.

La serata conclusiva, condotta da Valeria Perdonò e Alessandro Lussiana, ha premiato anche Lino Musella, Lisa Ferlazzo Natoli, Emanuele Aldrovandi, Nuovo Teatro Sanità, Zaches Teatro, Les Moustaches e “Supplici” (regia di Serena Sinigaglia) come miglior spettacolo. Premio Mariangela Melato a Roberta Lidia De Stefano e Alessandro Averone.

Hystrio Festival è stato kermesse di otto spettacoli e cinque letture sceniche “a tavolino” (cioè senza tocchi registici o forzature interpretative) curate da Tindaro Granata, con artisti consolidati della scena meneghina. Infine, la mise en espace di “Ma-Donna”, con la regia di Claudio Autelli e l’interpretazione di Anahì Traversi e Woody Neri: testo ben scritto e prova attoriale persuasiva.

Le letture sceniche di cinque drammaturghi under 35 (Eliana Rotella, Giulia Trivero, Alberto Fumagalli, Niccolò Matcovich e Pier Lorenzo Pisano) hanno evidenziato una buona capacità di scrittura, ma esiti a volte velleitari. Quando si cercano la profondità o la pulizia a tutti i costi, il rischio è di affondare nelle sabbie mobili del compiacimento letterario. Quando si enfatizza la veste simbolica del testo, la metafora può inghiottire la struttura narrativa. Quando ci si addentra nel sottotesto di classici che sono in partenza dei capolavori, il pericolo è di banalizzare spiegando l’ovvio, chiosando ciò che andrebbe lasciato alle suggestioni del lettore. Quando si punta al messaggio dirompente, si può cadere nell’ideologia o nel luogo comune. Se a tutto ciò si unisce un incastro lambiccato, l’esito può essere il naufragio delle buone intenzioni.

Un testo che ci ha convinto oltre ogni ragionevole dubbio è “Il presidente” di Alberto Fumagalli. Questo ragazzo ha talento senza bisogno di posare. Può trattare di diversità, d’amore o di politica con uguale naturalezza e freschezza. Non cade mai nella retorica, nell’egolatria, nella spettacolarizzazione. Il suo testo è un’efficace metafora del potere e delle sue seduzioni. “Il presidente” stigmatizza la piaggeria e la paura. Citando implicitamente il “Caligola” di Camus o “Ubu re” di Jarry (ma la filigrana è assai più ricca) sembra avallare uno dei più discussi capisaldi del francese Talleyrand, diventato celebre sulla bocca sulfurea di Andreotti: «Il potere logora chi non ce l’ha».

Passando alla scena vera e propria, uno spettacolo rodato ed efficace è “Nell’occhio del labirinto” prodotto dal Teatro della Cooperativa, scritto e diretto da Chicco Dossi con l’interpretazione di Simone Tudda. È la storia di Enzo Tortora (Genova, 1928 – Milano, 1988), popolare giornalista televisivo, storico conduttore di “Portobello”, vittima tra il 1983 e il 1986 di uno dei più clamorosi casi giudiziari della storia d’Italia.
Luci nude sul palco, a evocare un carcere o un’aula di tribunale, uno schermo televisivo e il rewind della memoria. C’è una panchina algida, che a momenti si trasforma in leggio o in banco degli imputati. Questo monologo, a metà tra inchiesta penale e indagine psicologica, è la ricostruzione di un’epoca dorata della tv italiana, con la scalata verso una celebrità meditabonda, mai edulcorata, di un presentatore che era innanzitutto un uomo con le sue fragilità. Tortora sapeva intercettare in tv l’umanità delle persone semplici perché era capace di fare i conti prima di tutto con la propria complessità. Regalava attimi di spensieratezza e sorrisi a un Paese con ancora addosso le scorie del dopoguerra e il sangue degli anni di piombo.
Un monologo che cambia forma continuamente (dalla confessione alla narrazione, dal dialogo al dibattimento all’apostrofe) e colpisce per la sua delicatezza. Chi ha vissuto quegli anni, ritrova atmosfere e sensazioni. Soprattutto, “Nell’occhio del labirinto” scuote le nostre coscienze poiché riesuma una brutta storia sepolta dall’accumulo degli anni: l’accusa ingiusta di associazione camorristica e traffico di droga rivolta da alcuni detenuti a Tortora, che ne sospese la vita per oltre tre anni, fino alla sentenza assolutoria della Corte d’Appello di Napoli.
Ma noi, «dove eravamo rimasti?» Quanti erano stati colpevolisti, e quanti innocentisti? Quanti sospesero il giudizio, vergini «di servo encomio e di codardo oltraggio»? Come ci ha cambiato quella vicenda? Sappiamo resistere alla spettacolarizzazione delle manette e alla sconsideratezza dei giudizi infamanti? Come reagiamo al fango che colpisce i potenti?
“Nell’occhio del labirinto” è castello kafkiano. È un testo essenziale e ben recitato, che denuncia il tritacarne giudiziario e mediatico capace di uccidere un uomo perbene.

Premio Hystrio Scritture di Scena 23 (ph: Gabriele Lopez)
Premio Hystrio Scritture di Scena 23 (ph: Gabriele Lopez)

Attualità scottante in “Argonauti e Xanax” (compagnia Caterpillar), scritto, diretto e interpretato da Daniele Vagnozzi con Federico Antonello, Luigi Aquilino, Denise Brambillasca, Gaia Carmagnani, Pietro De Nova, Ilaria Longo. Mitologia prestata all’attualità, un po’ nel solco di Eco di Fondo. Qui la vicenda di Giasone e del suo equipaggio è al servizio (con qualche forzatura) di tematiche come l’ansia e gli attacchi di panico. Manca, tuttavia, l’approfondimento psicologico. La trattazione risulta libresca. L’interpretazione è accademica, e in definiva poco credibile. Tanto brio ma anche prevedibilità nella regia, che avvicenda situazioni e personaggi in stile soap-opera con un semplice tocco di luce.

Molta verve in “Bozzoli” di Créature Ingrate (coprodotto da Qui e Ora Residenza Teatrale) vincitore del Premio Risonanze Network 2021. Silvia Torri e Rita Giacobazzi compenetrano narrazione, teatro d’oggetti e video in presa diretta per raccontare le vicissitudini di una donna che, dopo aver perso il lavoro per il Covid, si ricicla come intrattenitrice erotica. Una storia emblematica dell’arcipelago a luci rosse, tra stupore, coraggio e pentimenti, stigma e (pro)vocazione. Molta fantasia e ironia in questo lavoro creativo e denso di metafore. Piccoli oggetti per esplorare grandi temi. Leggerezza di sguardi per approcciare gravi tabù. Nessun vittimismo e nessuna vittimizzazione. Dissacrazione di simboli e inchiesta senza pedanteria. Divertente e coeso tandem attoriale, Giano bifronte al femminile.

Ancora più scottante il tema al centro di “Personne, chroniques d’une jeunesse” di Ugo Fiore e Livia Rossi, con lo stesso Fiore e Federica Furlani, spettacolo vincitore di Forever Young 21/22 de La Corte Ospitale.
Una scena tanto vuota da risultare asfittica. Spazio bianco, costume grigio. Un microfono. Un uomo accovacciato in cerca di ricordi. Un microfono. Filastrocche al metronomo. Una lingua francese sviscerata al massimo della sua musicalità. Il flashback di un’infanzia violata. L’incontro tra un undicenne e un quarantenne in un bagno pubblico. Autobiografia e immaginazione. Ricordi in sordina. Reticenza e omissis, alla maniera del Dante di Francesca da Rimini e Pia dei Tolomei. «Nel gioco di bimba si perde una donna» cantavano le Orme nel 1972, e il tema e l’impronta erano pressappoco gli stessi. Qui tutto è sospeso in una dimensione ovattata, interrotta episodicamente dalle immagini di un interno casa parigino ripreso in soggettiva.
Una storia di vagheggiamenti infantili, di retroscena lasciati all’interpretazione del lettore, in una narrazione in prima persona che a volte diventa riflessione e dialogo. Nostalgia e desiderio. Sesso e pudore. Suoni come respiri affannati. Parole centellinate dentro una colonna sonora evanescente, puntiforme, che fa da contrappunto alla tensione emotiva. Un lavoro che preferisce la vertigine alla profondità, lo smarrimento al sentimento. «Una storia che finisce solo perché si smette di parlare», ma che continua a risuonare dentro lo spettatore.

“Il mio corpo è come un monte” (Collettivo Effe) è la performance materiale e utopica di Giulia Odetto, con Lidia Luciani alla danza e le riprese video in presa diretta di Daniele Giacometti.
Quello di Odetto è un atto d’amore verso la montagna. Il corpo di Luciani si trasforma in pietra. Assistiamo al miracolo di una coagulazione di essenze attraverso un’efficacia compositiva che avrebbe affascinato l’Ovidio delle “Metamorfosi”. Pietre su pietre, e un corpo seminudo nel silenzio, che si fonde con la materia fredda, inerte, refrattaria. Rumori, fragori, in un cambiamento di stato veicolato da poche parole lapidarie. Venere degli scogli. I seni della danzatrice sono colline, i glutei altopiani, la colonna vertebrale dorsale montuosa.
La fusione tra animato e inanimato è esplosione orogenetica tra luci galattiche e crateri lunari. Un’essenzialità rocciosa permea questo lavoro in cui tutto è perfettamente calibrato e ogni linguaggio sprigiona un potenziale artistico dirompente. La performer dialoga con i rumori microfonati di pietre di varia grandezza, con le immagini del suo corpo agitato come magma. Ritratto in presa diretta, che proietta sul fondo immagini fotografiche monocrome, dalle venature michelangiolesche. Restiamo ipnotizzati dal connubio tra vita, agenti, polvere, fumo, acqua, che si addensano in bellezza straniante, nella perenne mimesi della materia.

Stilemi beckettiani tra grottesco e assurdo caratterizzano “Memori”, di e con Nicola Lorusso e Giulio Macrì. Lo spettacolo vincitore del bando CURA, Indòmati Fest e Radici Festival 2022 vede in scena due figure in attesa non dissimili da Vladimir ed Estragon di “Aspettando Godot”, e per certi versi affini a Willie e Winnie di “Giorni felici”, impelagati nella stessa impasse.
I protagonisti sono due clown senza naso rosso, dal viso di biacca, dagli abiti polverosi e cadenti. Anime sghembe dalla danza sbilenca. Mimi accartocciati dal linguaggio sterile. Carisma recitativo per una drammaturgia tuttavia evanescente. Movenze trasognate e buffe, ma sostanzialmente sganciate dal testo, e pertanto fini a se stesse. E c’è sempre una pecca quando il mistero alla radice della trama dev’essere svelato dall’attore anziché diventare una scoperta dello spettatore. Anche se la valigia dell’attore Lorusso e Macrì la posseggono. Ed è capiente e ricca di strumenti.

Le perplessità aumentano per “Uccelli di passo” del collettivo Bestand, dramaturg Dario Postiglione, regia di Giuseppe Maria Martino, con Luigi Bignone, Martina Carpino, Francesca Fedeli e Giampiero de Concilio.
Infanzia periferica, tra riti iniziatici e giochi di ruolo. Immaginazione e invenzione, sognando di essere adulti, trastullandosi a fare i preti e i ladri, gli innamorati e i pirati. C’è un sottotesto di colpa e di rimozione, sicuramente un trauma. Ma la matassa s’ingarbuglia, diventa sterile coazione a ripetere, e le storie laterali risucchiano quella principale fino ad assottigliarla. Tanto che la perdiamo di vista, e allora devono spiegarla i protagonisti. Restiamo con lo sguardo sbieco e il sorriso incerto, in un misto d’impotenza caustica.

La poesia ci salva. Che bravo Filippo Capobianco in “Mia mamma fa il notaio, ma anche il risotto”. Campione italiano e internazionale di Poetry Slam, questo acrobata delle parole conia una neolingua per parlare di città e famiglia, di noia e amicizia, di fidanzate terrapiattiste e passioni scientifiche.
L’amore è al centro di una performance di filastrocche e rime, di assonanze, consonanze e paranomasie. Tutto è sonorità, scansione, metrica. Mimesi della letteratura e gergalità; informalità e differenziazione. Una lingua aulica dirompente, per contrapporsi volutamente all’appiattimento dilagante.
In una civiltà dove le parole si estinguono con la stessa velocità degli animali, e lo smartphone uccide il libro e il dizionario, Capobianco invita a «fare proprie le parole di una biblioteca o di una madre». Stile alla Gianni Rodari, semplice e leggero, con tropi immediati e graffianti.
L’apoteosi della parola per concludere Hystrio. Per celebrare il rito del teatro, che è anzitutto il tempio delle parole trasformate in emozioni.

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