Penultima opera del maestro del Seicento francese Molière, “Le intellettuali” arrivano prima de “Il Malato immaginario”, con cui l’artista si accomiatò dalla vita, praticamente recitando.
Sono passati quasi 350 anni.
Con tutte le difficoltà di percorrere nel nostro tempo il teatro del Sei-Settecento, è innegabile che alcune opere del grande drammaturgo siano rimaste a segnare dei caratteri, dei tipi umani, divenendone definizione universale. Chi non ha mai dato a qualcuno del Malato immaginario, o non abbia visto, durante una rappresentazione di Molière, qualche tipo umano noto, prossimo, vicino, spesso addirittura identitario del punto di vista dell’osservatore.
Si ricordano episodi in cui persone reali abbiano affrontato ed offeso Molière in vita, perché si erano sentiti rappresentati da un suo carattere.
Il testo è stato scelto da Monica Conti per una regia in questi giorni (ancora stasera e domani) al Teatro Sala Fontana di Milano.
La notevole traduzione che Cesare Garboli ha fatto del testo, mantenendo ove possibile la rima, ma con qualche ardimento di contemporaneità per farlo vivere di autoportanza letteraria, aiuta la Conti in un’opera di mediazione registica del testo sul corpo dell’attore.
Gli attori sono in abiti d’epoca ma senza orpelli.
Un tavolo a sinistra, uno a destra. Una scalinata al centro della scena.
Sullo sfondo drappi e finti sipari sdruciti per un teatrino triste e impolverato di cui siamo nell’avanpalco.
Il gruppo di interpreti, composto da Maria Ariis, Stefano Braschi, Marco Cacciola, Federica Fabiani, Miro Landoni, Angelica Leo, Roberto Trifirò e Carlotta Viscovo, arriva ad una coralità profonda, che riflette la maestria di Molière giunta in quegli anni al massimo nella creazione di tipi umani, ma soprattutto di coralità scenica tale per cui risulta a conti fatti estremamente difficile identificare chi sia il protagonista della drammaturgia, cosa che, in altri testi, risulta più evidente.
Il bandolo della matassa emotiva passa di mano in mano e si colora e specifica ad ogni battuta, così che il pensiero che questo testo possa mantenere la sua “acida” capacità di corrodere il reale trova conferma a fine spettacolo.
E questo si deve alla combinazione di una serie di fattori.
L’ambientazione, anche se non immediatamente chiaro, è quella un teatro nel teatro, proprio per dare l’impressione di un consesso di figure tipizzate e non di rado etero dirette.
Il concetto di sudditanza psicologica echeggia per tutto lo spettacolo, in un’alternanza di signori e servi, che arriva finanche a capovolgersi nel finale, anche se ancora sono lontani i tempi delle drammaturgie giacobine in cui davvero l’ordine sociale si sovvertiva.
Qui c’è semplicemente la storia di una ragazza contesa fra due uomini, uno dei quali è l’intellettuale preferito dalla madre della ragazza, che è colei che esercita il potere in casa.
La scena fa esplicito rimando al fatto che tutte queste persone cerchino una ribalta nella fiera delle vanità che alimentano prendendo la cultura a pretesto. In cima a questo meccanismo di vanagloria l’intellettuale-poeta Trisottani (un Trifirò che si diverte tantissimo a fare il Carmelo Bene che recita poesie). E’ lui che, ad inizio spettacolo, guarda tutto dall’alto di una scalinata, simbolico approdo di tutte le mezze umanità in cerca di un trono, che ben presto si scoprirà comunque non essere quello ispirato dalle Muse. Trisottani infatti mollerà sul più bello la contesa che lo vedrà protagonista, facendo scoprire come il suo vero intento sia quello della ricchezza da acquisire con il matrimonio.
E qui appunto il secondo meccanismo dell’ingranaggio, ovvero la regia, che muove gli attori in modo che i personaggi, ognuno di loro, riveli il sé ed il suo doppio in modo interessante, in una girandola di non amori e di scelte che, con i sentimenti e le idealità, han poco a che vedere.
Questa lettura, insieme al sorriso, rivela però anche uno sguardo disincantato sulla società, uguale a quell’espressione che la Viscovo (la contesa Enrichetta) mantiene mentre i poetastri di casa declamano le loro rime baciate.
A ben guardare un legame forte con lo sguardo sul Pirandello de “L’uomo, la bestia e la virtù”, con cui sono evidenti i richiami verso la dimensione squallida della finta sentimentalità, dei rapporti di interesse, delle convenzioni sociali.
Il lavoro sugli attori in questo allestimento nobilita le pieghe più varie del testo e vale sicuramente più di ogni altra scelta registica, mentre meno additive di senso e interesse sono rimaste, per chi scrive, la ricerca insistita di oggetti e simboli feticcio, come le spade poi diventate croci. In fondo la presenza di questi richiami, con un finale quasi sepolcrale, riporta l’immaginario più ad fantasiose crociate che a consessi di pluto-arruffoni mascherati da topi di biblioteca.
Questione simbolica a parte, lo spettacolo vive di scelte registiche felici, di un gruppo di attori ben diretto e composto di talenti compositi e felicemente orchestrati e della capacità di generare un’empatica dinamica di satira umana di cui si affila la lama battuta dopo battuta.
LE INTELLETTUALI
di Molière
traduzione di Cesare Garboli
regia di Monica Conti
con: Maria Ariis, Stefano Braschi, Marco Cacciola, Federica Fabiani, Miro Landoni, Angelica Leo, Roberto Trifirò, Carlotta Viscovo
scene e costumi: Domenico Franchi
applausi del pubblico: 2′ 21”
Visto a Milano, Teatro Sala Fontana, il 25 marzo 2015