
Sulle note del Kyrie della Missa Syllabica di Arvo Paart, il sacrestano Pedro Gailo (Fausto Russo Alesi) entra con grande effetto dalla platea, quasi schiacciato dal peso di un asse di legno. Sulla sua testa una grandissima campana da chiesa. Davanti a lui una distesa di fango di oltre venti metri di lunghezza e una decina di larghezza.
Una dopo l’altra, il sacrestano prova ad allineare le assi in un percorso che gli permetta di raggiungere in fondo alla distesa di fango un luminoso altare bianco coperto e illuminato, senza sporcarsi.
La grande attesa per questo debutto di Damiano Michieletto al Piccolo Teatro di Milano ha finalmente avuto fine con il debutto del 25 marzo; il nuovo allestimento dal regista veneto – in scena fino al 30 aprile – il cui nome, inutile tacerlo, è fra quelli “chiacchierati” a cui si starebbe pensando per uno spazio nella direzione artistica del teatro milanese nel dopo Ronconi, era quindi particolarmente atteso.
Occorre spendere qualche parola sia per la scelta drammaturgica assai insolita sia perché “Divine Parole” si avvale di un cast di interpreti di primo interesse, diretto entro un impianto scenico piuttosto complesso.
Prima di tutto il testo, un testo centrale nella cultura teatrale spagnola, ma assai poco praticato in Italia, tanto che al Piccolo Teatro, ad esempio, non era mai stato rappresentato.
“Divinas palabras”, del poeta, scrittore e drammaturgo Ramón María del Valle Inclán (1866-1936), è stato scritto dopo la prima guerra mondiale con uno stile drammaturgico in cui Michieletto vuole leggere sia la nota surreale sia quel tono barbaro, animalesco e pasoliniano ante litteram che condiziona la modalità con cui la regia decide di portarlo in scena, in una rilettura che si concerta in maniera ampia con l’impianto scenico.
E’ un connubio, quello fra il regista e lo scenografo Paolo Fantin, che dura da molti anni, tra lirica e teatro, con esiti felicissimi e pluripremiati nell’universo dell’opera, dove le arditezze sceniche, unite ad una visione registica naturalmente incline alla ricerca del bello, hanno consegnato a Michieletto le chiavi per un’ascesa rapidissima in Europa.
Anche questo allestimento vive di una forma assai curata, per la quale ogni sequenza delle molte in cui è suddiviso il complesso di eventi (in un arco temporale di tre giorni) sono impiegati dai 10 ai 15 fari, oltre ad una macchina e un palcoscenico sostituiti da uno spazio rettangolare ricoperto di fango. E’ infatti questa la soluzione individuata come ipotetico non-luogo per ambientare una vicenda complessa ma ascrivibile alla dimensione del degrado.
In questo fango si ambientano le vicissitudini di una moltitudine di figure caratterizzate dall’incompiutezza e dalla miseria.
Un importante sipario metallico cala di tanto in tanto, dividendo il lungo spazio rettangolare in due parti (occultando il fondo della scena al pubblico) e creando microambienti per alcune sequenze particolari.
Quando la paratia è sollevata diventa invece visibile quello che nell’intenzione del regista dovrebbe essere l’immacolato spazio sacro e spirituale al quale il sagrestano protagonista della vicenda tenta di arrivare senza sporcarsi fin dei primi istanti della recita, e che inutilmente proverà a preservare.
La vicenda ruota attorno alla figura, peraltro invisibile, di una giovane creatura affetta da handicap e di cui i miserabili protagonisti della storia si serviranno come espediente per sopravvivere, come accattoni. La miseria si avvale di qualsiasi espediente per sopravvivere, per impietosire nella richiesta di elemosina.
Ed eccole uscire in questo nebbioso Purgatorio, una ad una, le figure: la moglie del sacrestano Mari Gaila (Federica De Martino) che lo tradisce, la loro figlia Simoniña (Petra Valentini), le sorelle di lui, Juana la Reina (Sara Zoia) con la carrozzina che porta in giro con il figlio nano idrocefalo, e Marica del Reino (Cinzia Spanò), che vorrà tenere il bambino dopo la morte della prima, e poi la complice Rosa la Tatula (Bruna Rossi), l’omosessuale dal carattere borderline Miguelin (Gabriele Falsetta) che in questo spettacolo ucciderà il piccolo, Séptimo Miau (Marco Foschi), figura ambigua di veggente e dongiovanni, e Poca Pena (Lucia Marinsalta), la prima delle sue donne, oltre ad altre figure animate da voglie animalesche (come Nicola Stravalaci).
Entrare qui in dettagli, come la drammaturgia fa con una ricchezza di didascalie e attributi, è operazione al limite dell’impossibile, e Michieletto stesso semplifica le informazioni originali per cercare una rilettura capace di essere evocativa ma al contempo non didascalica, per mantenere un’aura di sacra dannazione: tutte le piccole vicende che compongono questo affresco di periferia, di villaggio dell’umanità abbandonata, avranno esito tragico.
Il mélange di scelte che la regia prova a mettere assieme non è estraneo a sentori del cinema contemporaneo spagnolo, con alcune figure che paiono uscite da film di Almodovar (Michieletto stesso parla del testo come della sceneggiatura di un film).
I passi nella melma, l’appiccicoso cic-ciac delle scarpe diventano colonna sonora certamente non involontaria e controcanto del lirico liturgico scelto per il supporto musicale.
La dimensione dell’ossimoro contraddistingue sia il testo che la regia e la scelta scenica, tanto che si può a nostro avviso correttamente ritenere che non si debba parlare solo della regia ma di un rapporto a due fra regista e scenografo talmente forte da non poter scindere il punto in cui le decisioni dell’uno finiscono per dar spazio a quelle dell’altro. L’impianto luminoso è poi talmente incardinato nello spettacolo da esserne anche volano.
E questo è per molti versi un bene perché armonizza i vari elementi in modo inestricabile, ma per altro verso sancisce, nella nostra percezione, una supremazia estetico-visuale sulla parola, consegnando le chiavi dell’evocazione nello spettatore a ciò che vede, sacrificando non di rado l’intelleggibilità della vicenda, con un recitato poco corale, fatto da interpretazioni tutte molto accese e volutamente estreme, acide.
La fatica a leggere gli eventi rimane una sorta di peccato originale che continua ad essere pagato per tutto lo spettacolo, così che alla fine si resta con la percezione di aver assaggiato una pietanza dal gusto forte ma di cui non siamo stati in grado di apprezzare il sapore distinto degli ingredienti, sopraffatti dalla “presentazione”.
Così riflettiamo sul fatto che, se nello spazio dell’opera lirica la dominanza della scena ha una sua storica spiegazione, perché ideale contraltare materiale alle voci, di per sé destinate a farsi largo con la potenza dei singoli interpreti ma sostenuti dall’orchestra, nella forma teatrale l’orchestralità di suo manca, ed esistono alcune altre regole peculiari, come se si parlasse di due universi della fisica prossimi e apparentemente simili ma diversi nella meccanica e nelle forze che li regolano.
Nonostante il gruppo di attori tutti di talento, l’energia e la macchina scenica imponente, le decine di fari, i quintali di fango e il tutto tanto, sembra qui mancare un ingrediente base: la semplicità delle scelte chiare ma anche utili al dialogo fra parola e attore, determinanti profonde che, su testi come questo, paiono fondamentali.
Lasciamo il teatro in uno stato di svogliata sospensione, con la nostra anima uscita ben prima del corpo.
Divine parole
di Ramón María del Valle-Inclán
traduzione: Maria Luisa Aguirre d’Amico
regia: Damiano Michieletto
scene: Paolo Fantin
costumi: Carla Teti
luci: Alessandro Carletti
Personaggi ed interpreti (in ordine di apparizione):
Pedro Gailo – Fausto Russo Alesi
Séptimo Miau – Marco Foschi
Poca Pena / Benita – Lucia Marinsalta
Juana la Reina – Sara Zoia
Rosa la Tatula – Bruna Rossi
Miguelín el Padronés – Gabriele Falsetta
Donne – Federica Gelosa, Francesca Puglisi
Mari-Gaila – Federica Di Martino
Marica del Reino – Cinzia Spanò
Il Cieco di Gondar / Milon – Nicola Stravalaci
Simoniña – Petra Valentini
e con gli allievi del Corso “Luchino Visconti” della Scuola di Teatro Luca Ronconi: Alfonso De Vreese, Benedetto Patruno, Marco Risiglione
produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata: 2h 10′
applausi del pubblico: 3′ 12”
Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 25 marzo 2015
Prima nazionale
Condivido la sostanza della recensione tuttavia la mia opinione complessiva sullo spettacolo è ben più negativa. Se da un lato c’è stata una ossessionata (e assai dispendiosa) cura della componente visuale della rappresentazione, dall’altra è completamente mancato il lavoro sugli attori e sui personaggi (confusi e poco delineati i secondi, scollegati e non in ascolto tra loro i primi). Ciò ha portato come risultato ad una scarsa comprensione del testo e ad una sostanziale noia nella fruizione dello spettacolo dettata proprio da una totale mancanza di azione e di collegamento tra questa e la parola. Per riprendere la metafora gastronomica, il cibo è stato impiattato molto bene ma gli ingredienti non sono stati aggregati e cotti a dovere, comportando quindi una pietanza dal sapore confuso e per nulla succulento.
Dalla sala sono uscito a metà tra l’annoiato e l’irritato, con la forte sensazione d’aver assistito ad uno scimmiottamento del compianto Ronconi.
Con queste premesse, personalmente, la valutazione finale è ben al di sotto delle tre stelle.
Peccato che sei uscito a metà spettacolo ti sei perso la parte migliore. Fantastico bravi tutti
cinzia12cinzia, hai letto male, non sono uscito a metà dello spettacolo (non lo faccio mai), sono uscito alla fine, appunto con uno stato d’animo a metà tra l’annoiato e l’irritato. La parte finale certo non mi è parsa meglio della prima, anzi… De gustibus…
Io di stelle gliene darei 5 invece, perché non mi sono affatto annoiato.
Mi è sembrato uno spettacolo forte e che mi ha affascinato molto.
Il cast e’ strepitoso.
Per me me stata una serata emozionante e ricca di visioni. Mi è’ piaciuto molto il sagrestano sofferente e delirante reso da Fusto Alesi. Mi è’ piaciuta la madre-fantasma… Il finale con la lapidazione… La moglie adultera di Federica di Martino e il diabolico Marco Foschi.
Buon teatro a tutti!
A me è sembrato potente. Non sono un esperto, non so giudicare se ci fossero dei difetti di recitazione. Ma anche se ci fossero stati non mi hanno impedito di essere catturato da questa serata come mi accade poche volte a teatro. Volevo vedere come finiva… E mi ha colpito proprio il finale.
Forte, brutale, freddo e devastante. A dir poco stratosferico! Emozioni a non finire e domande che fa nascere dentro e che ti pèorti a casa.
Bellissimpo!
Raccogliendo alcuni commenti qua e là non posso fare a meno di notare la dose di invidia che Michieletto si è’ attirato addosso.
Forse perché giovane? Forse perché ha successo?
Mio giudizio, comunque: spettacolo con qualche difetto, ma uno dei più stra-ordinari del panorama teatrale italiano. Merita una medaglia! Anche per il coraggio, l’osare, il provocare reazioni, discussioni…. Living theatre!!!!
Michieletto divide sempre, a volte sbaglia come tutti, ma nelle regie d’opera è sempre coerente nello sviscerare in modo originale tutti i sottotesti,moltissime volte mi è toccato difenderlo dai tradizionalisti, poi è vero come dice Francabandera che il teatro non è l’opera.
Michieletto ci fa onore.. E’ un grande regista d’opera ( non è tra i più grandi, lui ad esempio non sa fare drammaturgia con la regia, non è davvero capace di creare delle contro-opere parallele alla musica, tipo Claus Guth, per dire. Il Ballo in Maschera alla Scala lo ha fregato. Però è sempre originale e vivo, e Fantin ha un grande gusto.
Io immagino che Michieletto abbia una gran voglia di dimostrare ( oppure siamo già ai livelli che “non gliene frega più niente? – ci farà sapere) di essere anche un regista di prosa.
Ma se vuole fare la prosa, deve rinunciare allo sfarzo delle scene. Deve prima inventarsi un suo attore,
Ronconi ha unito al gusto macchinoso un “suo” attore, che è appunto un attore “macchinoso”, che macinava ogni parola o sillaba….La Dante ha un suo attore-corpo e ore e ore e ore di prove.
a Michietto questo non riuscirà subito, e scoprirà che non può far teatro di sola scenografia. Wilson ad esempio, che si va a vedere “per la scenografia”, ha un “suo” attore, tagliente ed “espressivo” come una luce.
Michieletto deve inventare un “suo” attore, altrimenti il suo teatro di prosa non sarà mai molto importante.
Ma siamo sicuri che a lui gliene freghi? Fama, incarichi e successi internazionali spesso annebbiano la capacità autocritica,
Il tempo lo dimostrerà.
Lo stupro di un copione: non è originalità, ma arbitrarietà.
(Prima di rispondere gridando allo scandalo leggere il testo di Valle-Inclan)
Il teatro può permettersi di spendere così tanti soldi per nascondere la totale assenza di un’idea (1 idea di base. Da quell’unica, precisa, idea comincia un lavoro su un testo)?
Pessimo
Non sono d’accordo sul giudizio: ho visto Falstaff che ha fatto a Salisburgo ed è grande drammaturgia.
Ho letto la recensione di Cordelli la settimana scorsa e condivido tutto quello che ha scritto.
Complimenti a Michieletto e al Piccolo per questo coraggioso e visionario spettacolo.
Meraviglioso, duro, poetico….