
In verità si tratta di recuperare ancora una volta l’impegno civile su cui un tempo il teatro era ben incardinato, indirizzando sulla stessa strada il teatro di oggi. Perché qui, ad emergere su tutto è proprio la riflessione di Molière sul potere.
Si comincia con la condanna della commedia da parte della corona francese e con l’ombra oscura di uno scandalo che avvolge la vita del drammaturgo. Due informazioni che gettano subito una luce sinistra sul testo.
In una cornice che contiene e attraversa l’intero spettacolo, i due registi tentano una contestualizzazione storica dell’opera e uno sguardo furtivo nella biografia dell’autore stesso, perché emerga nel modo più forte il coraggio con cui Molière seppe sfidare la compagine politica del tempo.
E per un attimo conosciamo il vero volto di Tartuffe, l’impostore che, per arricchirsi, strumentalizza con spregiudicato cinismo la morale e i più alti principi religiosi: si tratta del ‘partito dei devoti’, congregazione anche detta “La Cabala” che, agli occhi di Molière, seppe irretire la corona francese con una facciata religiosa solo pretestuosa.
L’atto di ribellione del drammaturgo fu prontamente punito con la clamorosa condanna della commedia, nonostante la compagnia godesse da tempo dei favori del re. L’evento chiarì bene la debolezza di Luigi XIV verso La Cabala e sottolineò anche la precarietà cui è costretto il teatro in una compagine politica, quale è la monarchia assoluta, che ingoia del tutto arbitrariamente ogni diritto umano, compresa la libertà di parola.
E dal momento che tale precarietà del teatro non si è comunque risolta ad oggi, si apre una riflessione su quanto in effetti sia gradita dai governi attuali la vetrina civile offerta dai teatranti.
Ed è il bellissimo finale inventato dai registi a rendere con forza la delusione degli artisti verso un potere che non sa e non vuole proteggerli, con un re/deus ex machina che sembra risolvere ogni questione e poi scompare improvvisamente, rivelando la sua natura posticcia e/o ambivalente: il palco cede, la scenografia pezzo dopo pezzo casca, finché l’intero spazio non viene inghiottito nel buio.
Ma se il rumore cupo del taglio della ghigliottina che risuona sinistro in sala richiama alla violenza del potere autoritario, nello stesso tempo rievoca ambiguamente anche la decapitazione del re che sarebbe arrivata nella Francia della Rivoluzione. Così, a riemergere nel buio, non è il volto del potere, ma quello dell’attore. Perché la Storia è una successione di poteri che sorgono e tramontano, mentre l’unica costante è l’uomo e il suo lento, ma inesorabile cammino verso la coscienza di sé.
Forte il messaggio civile e complessa la riflessione sull’ambiguità: perché se la condanna morale della commedia fu certo dovuta solo a scopi politici, in verità nella cornice il racconto di Madame Bejart, prima attrice della compagnia, nonché amante di Molière, poi trovatasi in disparte per una infatuazione del drammaturgo per quella che si vociferava fosse la sua stessa figlia, rende certo meno nitida l’effettiva moralità dell’artista.
Ma l’ambiguità degli uomini e della realtà è in effetti il vero tema portante della commedia, come spesso succede nelle migliori opere del barocco. Così è pur sempre con l’inganno che si disinganna il Tartuffe e lo stesso messo reale, prima di rivelarsi, cede anch’esso alla tentazione della maschera.
E ambiguo è lo stesso teatro, che porta in scena la verità attraverso la maschera.
Per tutti questi aspetti Molière è certo teatro puro e i suoi personaggi sono ambitissimi e insieme temutissimi da ogni attore. Perché dietro le esilaranti battute di Orgon o Tartuffe si cela il mistero della creazione dell’attore-autore e dell’improvvisazione.
Non basta una semplice interpretazione del testo, ma occorre instaurare un vero e proprio rapporto viscerale tra l’attore e il personaggio perché si scateni tutta la comicità del testo. Comicità che si basa in Molière sul ritratto paradossalmente realistico della follia della quotidianità. E proprio su una vitalistica schizofrenia spingono i due registi, componendo il gruppo attorale come uno stormo di variopinti uccelli che si muova come seguendo una grande coreografia e scegliendo stilizzazioni da fumetto ed esasperazioni grottesche che non travalicano la realtà, bensì la fotografano in modo più fedele, perché la normalità e l’equilibrio negli uomini sono in verità un ideale raramente raggiunto.
Il meccanismo teatrale funziona: le scene si susseguono incastrandosi perfettamente l’una nell’altra, scorrendo piacevolmente davanti a un pubblico sicuramente divertito.
Ma nel pur molto affiatato gruppo attorale, già rodato in “Mythos”, rimangono delle disomogeneità. Così, se confermano il proprio talento la bravissima Monica Ceccardi, che sostiene con brillantezza e gustosa ironia la sua Madame Pernelle, e a cui si affida solidamente tutta la cornice, il sempre ottimo Fausto Cabra nel ruolo non facile di Orgon, l’ammirevole Francesca Cecala (difficile immaginare una Dorine migliore), e si rivelano molto più che in “Mythos” Silvia Quarantini, ottima Marianne, e soprattutto Fabrizia Boffelli, che con la sua Madame Loyale realizza un momento veramente esilarante nel secondo atto, tutta la grande macchina si inceppa proprio all’ingresso di Tartuffe, consegnato ad un inesperto Gabriele Reboni.
La sua interpretazione priva di ironia risulta fuori registro e anche difficile da seguire. Il risultato è la perdita della riflessione sull’ipocrisia, ben sviluppata invece da Molière. Pecca davvero non da poco in un lavoro per il resto ben cesellato.
E ancora, nonostante la buona energia, Filippo Garlanda non salva dalla pura didascalia il suo Cleante per via di una caratterizzazione troppo debole.
Grande cura invece per l’aspetto sonoro (studiato da Edoardo Chiaf), al centro di una intensa ricerca anche nel precedente “Mythos”: qui un susseguirsi di motivi secenteschi si intreccia a rumori dal sapore fumettistico e a gag sonore che rievocano i giochi musicali che resero celebre il Topolino di Walt Disney e sono ancora oggi la peculiarità di molti cartoon.
Terminiamo con una nota amara, sottolineando il cattivo lavoro di ristrutturazione condotto sulla sala bresciana ora dedicata a Mina Mezzadri, che penalizza fortemente l’acustica tramite un assurdo doppio boccascena, costringendo gli attori a uno sforzo vocale molto gravoso.
Impossibile non pensare a quanto ancora il teatro sia considerato solo accessorio da quelle autorità che richiedono ristrutturazioni attente unicamente all’aspetto estetico. Una questione che non fa che ribadire quanto espresso nella prima parte di questo ragionamento.
In scena a Brescia fino al 22 dicembre.
TARTUFO OVVERO L’IMPOSTORE
da Molière
elaborazione drammaturgica, regia, impianto scenico: Elena Bucci e Marco Sgrosso
disegno luci: Cesare Agoni
drammaturgia del suono: Edoardo Chiaf
assistente alla regia: Chiara Pizzatti
con (in o.a.): Matteo Bertuetti (Valère), Fabrizia Boffelli (Madame Loyale), Fausto Cabra (Orgon), Francesca Cecala (Dorine), Monica Ceccardi (Madame Pernelle, Madeleine Bejart), Filippo Garlanda (Cleante), Alessandra Mattei (Elmire), Gianmarco Pellecchia (Damìs), Silvia Quarantini (Marianne), Gabriele Reboni (Tartuffe)
produzione: CTB Teatro Stabile di Brescia
durata: 2h 15′
applausi del pubblico: 2′ 30”
Visto a Brescia, Teatro Santa Chiara, il 6 dicembre 2013
Prima nazionale