Dance is in the air a Vienna durante i giorni dell’ImPulsTanz Festival, oggi sotto la direzione di Karl Regensburger. I sempre più ironici cartelloni del festival tappezzano la città, le performance tenute nei principali teatri la attraversano e i numerosi appuntamenti riempiono il tempo. Convegni e incontri al mattino, workshop al pomeriggio, spettacoli alla sera e poi dj set e feste fino a tarda notte, oltre a collaborazioni con il Leopold Museum e il Mumok, che espongono alcune opere di coreografi e performer come Geumhyung Jeong. Dal 1984 un appuntamento a livello internazionale che ogni anno presenta più di 50 produzioni che indagano su ricerca artistica e tematiche attuali. Si parla di futuro e di specie in estinzione, di identità, di trasformazione del corpo, con un programma che vede partecipi alcuni tra i più importanti nomi del panorama della danza contemporanea mondiale. Un progetto di residenze dà spazio ai giovani coreografi, e oltre alla danza il festival è ricco anche di concerti con musica pop, barocca, ed elettronica.
Ed è proprio “Vollmond” (luna piena), di Pina Bausch, ad aprire il festival al Burgtheater, il teatro principale della città, qui in prima nazionale.
Il palco è illuminato da un chiaro di luna che fa muovere riflessi d’acqua appena percepibili, su un mare reale, dominato da una imponente roccia. Una pioggia fitta, ugualmente reale, arricchisce il paesaggio di un impatto poetico sia sonoro che visivo, grazie ad un eccellente disegno luci che rende l’illuminazione dell’intera performance naturale proprio come un chiaro di luna.
È la meravigliosa quanto semplice scena disegnata dallo storico collaboratore di Pina Bausch, Peter Pabst.
Una roccia a cui aggrapparsi per non cedere alle intemperie della vita è simbolicamente quanto di più romantico possa esprimere i bisogni e la precarietà dell’essere umano, che cerca in un punto fermo la sicurezza, ma dalla quale può cadere o scivolare con estrema facilità, così come ripetutamente accade ai danzatori che su quella roccia bagnata si arrampicano, scivolano o da cui si lanciano come ci si lancia nel vuoto dei sentimenti. Ma la roccia, che sembra provenire da un’altra era, testimonia anche l’eternità dei meccanismi umani che si ripetono all’infinito.
Due uomini si affrontano per una donna. Un terzo sembra combattere con il proprio corpo mentre la donna passa da una risata forzata ad una isterica.
La questione primaria per Pina Bausch era portare nell’arte, nell’immaginario creativo dell’essere umano, la normalità del quotidiano. È così che i personaggi di “Vollmond” si trasformano in simboliche immagini che esprimono la perenne altalena tra il conscio e l’inconscio a cui l’essere umano è soggetto, sempre in bilico tra forza e fragilità, tra amore e violenza, senza mai tralasciare l’aspetto ironico, perché in fondo è la vita stessa a prendersi gioco di noi. Ma ogni individuo, per quanto si affanni a rispecchiarsi nell’altro o a coinvolgersi in relazioni che non potrebbero essere meglio rappresentate da una danza, alla fine è solo, ed è quella solitudine che ci fa sentire un po’ persi, un po’ inquieti e soprattutto inappagati.
È così che un bacio diventa un modo di respingere l’altro, l’amore diventa servilismo nella famosa scena in cui l’uomo fa da sedia alla donna, la passione diventa supremazia, per l’eterno dilemma sollevato ad un certo punto da uno dei danzatori: “Cosa è meglio, un grande amore con tutti i risvolti passionali in un’unica volta, o vivere un po’ di amore tutti i giorni?”.
L’amore è il pretesto, non il soggetto, inscenato per tutta la performance con un gioco di seduzione e resistenza, pose e trappole tradotte in immagini volutamente ambigue. Dove finisce la seduzione e inizia la dipendenza? Così le azioni diventano specchi che riflettono l’importanza della libertà e del lasciarsi andare, del mettersi a nudo (“This is me”!) della fugacità del tempo – “I am young, my mind is power and my body is strong”.
L’acqua è l’elemento predominante di questo “Stuck” di Pina, che lava via i pregiudizi e le stratificazioni sociali, rendendo gli interpreti liberi di vagare danzando nella notte, perdendo e ritrovando sé stessi, spesso con un bicchiere in mano perché sotto l’influenza di una luna che li rende ubriachi di vita. I danzatori si lanciano secchiate d’acqua, sguazzano tra gli schizzi, accolgono a braccia aperte la pioggia, si immergono nell’acqua che ne trasporta i corpi galleggianti come in un quadro preraffaelita.
Lo splendore di ogni opera di Pina Bausch è dato da un potere coreografico tellurico che riesce a combinare in modo perfetto tutte le sue componenti.
La danza anzitutto. Un movimento tenuto e rilasciato sempre in un perfetto equilibrio che scivola naturalmente tra i danzatori, che si espande quando allargano le braccia come per abbracciare la natura che li circonda, o si racchiude in sé stesso quando si raggomitolano a terra andando a cercare la parte più intima di loro stessi, che scoppia nella forza della passione a rappresentare i contrasti a volte violenti tra uomo e donna, o trabocca di follia.
La musica esalta costantemente gli stati d’animo: poetica, come i brani di Alexander Balanescu, onirica, come “Rino’s prayer” o i brani di Amon Tobin e Kid Koala, malinconica come “Les marionettes” di Zbigniew Preisner, romantica come La Gnossiennes o amara e sensuale come Tom Waits.
I costumi di Marion Cito, che fa parte del Tanztheater Wuppertal dal 1976 (inizialmente come danzatrice), disegnano i personaggi e diventano funzionali al processo creativo, svelando gli schemi sociali che legano da sempre l’uomo e la donna, il contesto socio-culturale che circonda i personaggi – la fragile morbidezza e sensualità della donna e la rigidità del ruolo maschile, di cui durante la performance si spoglia, perché il desiderio è liberarsene – e le convenzioni sociali (basti pensare alla scena in cui l’uomo è sfidato a slacciare in pochi secondi il reggiseno della donna).
E infine gli interpreti. Dodici eccelsi danzatori di nazionalità e generazioni differenti, solo alcuni del corpo che oggi costituisce il Tanztheater Wuppertal, dal 2019 sotto la direzione di Roger Christmann.
Una coreografia costruita per accrescimento, poi abbandonata improvvisamente, contribuendo a creare un pervaso senso di alienazione che può lasciare una sensazione di ambiguità, ma con la certezza che ogni immagine può evocare reazioni diverse nell’individuo che osserva.
La questione che sorge oltre quarant’anni dopo le prime creazioni di Pina Bausch è che, vedendo oggi le sue performance, si ha l’impressione di assistere a qualcosa di nostalgico, in qualche modo superato, ma allo stesso tempo celebrativo di un’epoca e di una conquista – avvenuta verso la metà del ventesimo secolo – in cui la danza si è liberata dalle costrizioni e dai condizionamenti dei canoni classici della danza. Nel 2022 assistere ad una performance di Pina Bausch è un po’ come guardare un film di Godard o di Antonioni, e se il teatro dovrebbe essere testimone del qui e ora, e rappresentativo di una realtà attuale, non avremmo forse bisogno di una nuova Pina Bausch che rivoluzioni e in qualche modo scuota ancora una volta questo presente anestetizzato e privo di stupore?
La risposta sta al pubblico, che sicuramente può uscire da una performance come questa impregnato di sensazioni contradditorie, o farsela scivolare addosso con un sorriso ironico perché ha colto l’invito subliminale di una grande Pina che sembra ancora di vedere mentre sussurra: Komm, tanz mit mir…
Vollmond. Ein Stuck von Pina Bausch
Tanztheater Wuppertal Pina Bausch
Drammaturgia e coreografia: Pina Bausch
Stage: Peter Pabst
Costumi: Marion Cito
Collaborazione musicale: Matthias Burkert, Andreas Eisenschneider
Contributti: Marion Cito, Daphnis Kokkinos, Robert Sturm
Musica: Amon Tobin, René Aubry, Nenad Jelic, Magyar Posse, Leftfield, Jun Miyake, Cat Power, The Alexander Balanescu Quartett, Tom Waits amongst others
Direttore delle prove: Daphnis Kokkinos, Robert Sturm
Con: Dean Biosca, Naomi Brito, Silvia Farias Heredia, Ditta Miranda Jasjfi, Alexander López Guerra, Nicholas Losada, Héléna Pikon, Azusa Seyama, Ekaterina Shushakova, Julie Anne Stanzak, Michael Strecker/Reginald Lefevbre, Christopher Tandy
Durata: 2h 30′ ore (con pausa di 15 minuti)
Visto a Vienna, Burgtheater, il 9 luglio 2022
Prima austriaca