Ambra Pittoni: la mia arte performativa, dall’ufficio delle imposte alla Scala

Ze coeupel
La photo-performance Ze Buuk of Lluman Biing, di Ze Coeupel in collaborazione con il fotografo Philippe Lepaulard. In questo scatto ‘il buffet del vernissage’

Nel 2010 Ambra Pittoni arrivava a Milano da Berlino per raccontare la danza in un respiro, con la performance “Dance is not forever”.
A distanza di un anno, il duo Ze Coeupel (composto da Ambra e dall’artista francese Paul-Flavien Enriquez-Sarano) è tornato, lo scorso ottobre, ad animare il museo Maga di Gallarate con il lavoro “I love you teach me something”, all’interno del festival Performazioni.

L’ho incontrata di nuovo al Careof di Milano, mentre cercava il suono che può fare un Unicorno, davanti a tante tazzine di tea.

Ambra, il tuo sito è già di per sé un’opera d’arte, e racconta di te come performer multiforme. Cosa significa per te?
L’interfaccia è stata realizzata da Paul-Flavien Enriquez-Sarano (prima di formare Ze Coeupel) dopo aver riflettuto insieme. All’inizio l’intento è stato quello di invitare il visitatore nel mio mondo, più che di elencare i miei lavori a mo’ di portfolio. Con il tempo, i lavori aumentavano, si è formato il duo artistico Ze Coeupel ed il sito è diventato anche un portfolio. Cerco di tenerlo aggiornato il più possibile, anche se star dietro ai tempi di produzione con la documentazione a volte è difficile.
La molteplicità mi caratterizza in tutti i sensi, come artista, come performer. Fino ad oggi non ho avuto un’ossessione precisa. Forse è proprio la molteplicità che mi ossessiona. Dover creare un unico stile che mi contraddistingua mi è sempre sembrata una forzatura.

Come vivi la rappresentazione di te stessa?
Ho vissuto un momento intenso di auto-rappresentazione e di ricerca. Era all’inizio, quando coreografavo degli assoli per me stessa e dei video. L’immagine del mio corpo ha avuto una buona importanza nella mia ricerca sul corpo in generale, sull’identità e le sue frammentazioni, anche se preferisco definirle sfaccettature.
In questo percorso, l’abito è sicuramente uno dei mondi che più mi ha intrigato. Credo che l’auto-rappresentazione abbia corrisposto alla necessità di essere compresa, rispettando la mia complessità.

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La photo-performance Ze Buuk of Lluman Biing, di Ze Coeupel in collaborazione con il fotografo Philippe Lepaulard. In questo scatto ‘gli hippies’

Nel tuo manifesto parli di fantasmi, di macchine rivelatrici di forme non previste. Che cosa significa? Sei un fantasma che si veste di forme diverse? Che cosa cerchi di svelare quando lavori da sola?
Il fantasma è una metafora che ho utilizzato qualche anno fa per descrivere il mio modo di creare: procedendo dalla strutturazione concettuale alla creazione aleatoria, in cui l’opera (soprattutto se performance) si definiva formalmente durante tutta la sua realizzazione, e veniva lasciata aperta a quello che sarebbe accaduto con la partecipazione del pubblico, come in “Boutique de Danse”.
E poi il fantasma rappresenta l’eterogeneità dei miei progetti: una stessa idea si manifestava in molte forme diverse: un progetto fotografico, una danza, una performance… senza limiti!

Da danzatrice a performer il passo è breve, ma perché si fa quel passo?
Credo si tratti della necessità di aprirsi alle infinite possibilità dell’arte. La danza è molto più legata al linguaggio, con alcune eccezioni d’avanguardia francese e nord-europea, che sono quelle a cui io mi sono riferita. Mi sono resa conto che quello che facevo erano performance, a volte legate alla danza, ma che la maggior parte del tempo non necessitavano di un palcoscenico; ogni volta i movimenti erano diversi, non si strutturava un linguaggio, ma un discorso. Così si fa il passo; è solo questione di allargare le vedute. E poi il pubblico della danza è troppo poco numeroso!

Ze coeupel: come nasce la vostra coppia artistica?
La nostra coppia artistica nasce perché ci siamo innamorati. Poi, per caso, parlando abbiamo avuto un’idea… è venuto fuori il primo lavoro “Ze Buuk of Lluman Biing” e da lì abbiamo continuato. A dire la verità non me lo aspettavo, non abbiamo cercato la collaborazione, più che altro è avvenuta.

I vostri lavori sono per la maggior parte basati sul meccanismo della performance partecipativa: come funziona e da dove nasce la vostra ricerca in questo senso?

La ricerca si è consolidata dopo i primi lavori creati e proposti a Berlino. Venivamo da un periodo di profonda riflessione sulla collaborazione, le sue forme e le circostanze attraverso cui nascono le opere d’arte, quali ne favoriscano la creazione. La tensione era tutta concentrata sull’apertura in equilibrio con la concentrazione.

Il vostro lavoro sta fra lo stage (inteso anche come forma rappresentativa della messa in scena, e non solo come luogo fisico) e la galleria d’arte: state migrando? A che punto siete di questo sviluppo della ricerca espressiva e dove credete che arriverà?
Non sappiamo dire se si tratti di una migrazione, anzi direi che più che altro si tratta ancora una volta di circostanze. Alcuni luoghi sono più adatti ad alcuni lavori. È vero che nel mondo dell’arte tout court abbiamo spesso incontrato una maggiore cura nei confronti del nostro lavoro, ma due salti in teatro siamo sempre entusiasti di farli!

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La photo-performance Ze Buuk of Lluman Biing, di Ze Coeupel in collaborazione con il fotografo Philippe Lepaulard. In questo scatto ‘il jetset italiano’

Come scegliete i macro temi da cui partire per sviluppare il lavoro performativo?
Non lo saprei descrivere con precisione… Afferriamo le cose che ci sono nell’aria. Ci sono dei periodi in cui si cominciano a manifestare più di altre necessità, temi, idee. A volte prendono forma parlando di tutt’altro, a pranzo o camminando o descrivendo un piccolo dettaglio.

Il testo esiste? Quanto?
Il testo esiste, sì. Nella misura in cui è necessario, nasce dalle azioni e dai mondi che attraverso le nostre opere creiamo, dunque anche dalle persone che vi partecipano. Come in “S.A.V.E.” ad esempio.

Il corpo esiste? Quanto?
Il corpo esiste a diversi livelli, a seconda dei lavori. Come immagine, in alcune performance è molto importante la pelle intesa come consistenza, come modo di stare. In altre performance il corpo diventa quello di qualcun’altro.

La musica esiste? Quanto?
La musica al momento non è uno dei punti su cui ci concentriamo molto. Piuttosto il suono.

Cosa sono per voi le performing arts e quali le frontiere?
Le performing arts sono un ambito disciplinare, da cui partiamo e con il quale interagiamo.

Dove portate i vostri lavori?
Potendo ovunque: nei giardini, all’ufficio delle imposte, al supermercato, alla Scala. Al momento in performing art festival, gallerie, teatri e video festival.

Chi collabora con voi?
Si tratta di artisti come Esther Elisha o Yusuke Yamasaki, che stimiamo e con i quali c’è uno scambio continuo, o persone che partecipano ad un progetto specifico. Anche queste non sono mai accanto a noi per caso, ma per visioni condivise, a volte con molta empatia.

L’ultima performance, “I love you teach me something”, nasce da una riflessione sul dono e lo scambio. Cosa è successo alle persone quando avete chiesto di donare qualcosa di sé?

I protagonisti di “I love you teach me something” sono tutte persone di origine straniera e che vivono a Gallarate o persone nate in Italia da matrimoni misti, dunque solo apparentemente straniere. Tutti hanno accolto con gioia l’idea di lasciare qualcosa.

Come producete i vostri lavori? Chi sono i vostri partner istituzionali?

Spesso sono autoprodotti con “partner occasionali”, l’ultimo è stato proprio il Maga di Gallarate.

Qual è il vostro spazio ideale? Ed il partner istituzionale?

Tutto e dappertutto, basta che ci sia cura e ascolto.

Qual è l’esperienza più generosa che avete vissuto come artisti, fino ad ora?
Se intendi per quello che abbiamo dato, nel senso di riuscire a riempire completamente la nostra funzione nel nostro fare, sicuramente è sempre l’ultima. Nel caso di Ze Coeupel si tratta di “S.A.V.E.” a Marsiglia: la conferenza stampa fittizia che abbiamo messo in atto, dopo due settimane di residenza e di indagini in incognito nella città, e poi “I love you teach me something” al Maga: un mese di esperienze, citando Beuyes, l’hanno definita scultura sociale. Quello che abbiamo portato come risultato finale (due performance e un’installazione) è stato il frutto di un mondo costruito insieme a sette persone che si sono date completamente al progetto, con le quali abbiamo intrecciato relazioni usando lo spazio del museo per incontrarci, parlare, provare.

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La photo-performance Ze Buuk of Lluman Biing, di Ze Coeupel in collaborazione con il fotografo Philippe Lepaulard. In questo scatto ‘i giocatori di tennis’

Ti manca Milano?
Mi mancava, ma tra un impegno e l’altro la sto recuperando… alternando con Berlino.

Ecco, proprio Berlino: ti soddisfa ancora?
Berlino è la città in cui sono cresciuta come artista e in cui ho fatto le prime cose. Ora la mia/nostra presenza lì sta cambiando. Diciamo che in parte la uso come base di preparazione, i pensieri si muovono più liberi, a Berlino. L’altra parte è la partecipazione alla vita culturale della città in maniera più “incisiva”, forse con un programma più ampio e una voglia di far coincidere la ricerca, l’underground e le istituzioni. Penso ancora che sia il posto perfetto per far convivere cose molto diverse, comprese le utopie.

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