Fiat umbra! Il teatro di figura in Controluce a Torino

Didone ed Enea di Controluce|Alauda Teatro in Cristobal Purchinela
Didone ed Enea di Controluce|Alauda Teatro in Cristobal Purchinela

“Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini. La sua architettura, ricca di simmetria, è subordinata a tale fine. […] Esiste un gran simbolo evidente della perplessità, e questo simbolo è il labirinto”. Jorge Luis Borges elegge il labirinto ad allegoria della complessità del mondo e dell’inattingibilità del Vero. E’ in questo spazio di disorientato stupore che il Festival Incanti accoglie il pubblico torinese nella ricorrenza del suo venticinquesimo compleanno.

Ad aprire l’edizione 2018 sono i padroni di casa, Controluce Teatro d’Ombre, gruppo che nasce nel 1994 dall’incontro a Torino tra il pittore spagnolo Jenaro Meléndrez Chas con Alberto Jona e Cora De Maria.
Da allora questo fortunato sodalizio artistico, capace di sperimentare nella duplice direzione del teatro di figura e del teatro musicale, ha concepito opere in grado di fondere innovativamente musica, pittura astratta e teatro d’ombre orientale.

Dirigendo il Progetto Incanti Produce, Controluce inaugura da buon Anfitrione la rassegna salpando proprio dalle arcane sponde della mitologia classica, la Grecia del favoloso Minotauro, protagonista dello spettacolo “Il labirinto”, che vede in scena attori provenienti da Spagna, Belgio e Italia.
Nella sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani viene ricreato con semplici lenzuoli bianchi il celebre Dedalo dell’omonimo architetto, commissionato da Minosse e situato nelle viscere del palazzo di Cnosso. La leggenda nasce proprio da qui: il remoto passato della talassocrazia minoica sull’Egeo fu progressivamente trasfigurato nell’offerta sacrificale di quattordici giovani, che ogni anno la città di Atene doveva corrispondere come pegno di sottomissione al sovrano cretese.
Come noto, sarà Teseo a porre fine al sanguinoso tributo, grazie all’ingegnosa iniezione di coraggio di Arianna, figlia del re: il proverbiale fil rouge che viene in soccorso dello sprovveduto ed ingrato straniero.

Con lo stesso passo smarrito e timoroso di quest’ultimo, lo spettatore incede cautamente nella semioscurità di un’ingannevole caverna platonica, fra i meandri di una performance itinerante cui fa da sfondo esoterico una cacofonia stridente, una cappa di suoni sotterranei e distorti che sfiorano la noise music e il percussionismo più tribale. Dietro il frusciare dei candidi paraventi si accendono qua e là lucciole furtive, iridati bagliori, pallide lune che fanno da oblò alle ombre nitide degli interpreti, impegnati a raccontare la tragedia di un’incompresa solitudine, quella della creatura rinnegata, della bestia feroce confinata nelle tenebre per via di un’unica colpa, la propria deformità. Ma è impossibile arrestare la proliferazione del senso, e così attorno alla figura del Minotauro viene a gravitare inevitabilmente il complesso gomitolo della nostra psiche, e il confronto fra Teseo e la Bestia assume le proporzioni di una vittoria del raziocinio – in prestito – sulla bassa istintualità, la latenza dell’Es pulsionale di matrice freudiana.

La drammaturgia di Controluce, con la sua luminotecnica espressionista, trasforma mirabilmente questo inconscio antagonismo in una mutua, tesa, ricerca: Teseo e il Minotauro, come nei migliori thriller – si pensi alla centralità dell’ombra nel genere noir – si pedinano e tallonano, invertendo continuamente i ruoli di cacciatore e preda, in un’intercambiabilità rivelatrice di quello che è sin dall’inizio un’esplorazione delle scissioni interiori, l’iniziatica scoperta dell’Io diviso che dimora in ciascuno di noi. Il manicheismo luministico che contrappone i personaggi è infatti solo apparente, perché ciò che trova manifestazione è forse l’inscindibilità di luce e ombra, la loro intrinseca complementarità, come insegna la teoria dei colori in pittura. Ne è un esempio l’affinità elettiva che lega e sovrappone nell’abbraccio di una stessa ombra il Minotauro e sua sorella Arianna, il cui amore è tradito con l’abbandono sull’isola di Nasso.

“Ora il vento s’è fatto silenzioso / E silenzioso il mare; / Tutto tace; ma grido / Da quando ti mirai e m’hai guardata / E più non sono che un oggetto debole. / Da quando più non sono / Se non cosa in rovina e abbandonata”. Questo lamento colmo d’angoscia, scolpito dai versi di Giuseppe Ungaretti, potrebbe tranquillamente essere stato pronunciato da Arianna. Eppure ad innalzarlo è Didone. L’impermanenza del sentimento amoroso scopre una metafora perfetta nella fugacità inafferrabile delle ombre sulla scena, e non è certo un caso che il secondo titolo in cartellone riguardi proprio quest’altra eroina sedotta e presto dimenticata da un uomo – ennesima reincarnazione del peregrino Odisseo – che antepone all’eros una passione più grande, quella per l’avventura e la gloria, travestite da Destino.

Cullati dall’onda lunga del mito, ci si sposta nel Mar Mediterraneo, tra i cui flutti compaiono le vele della navicella di Enea, esule di Troia e futuro fondatore di Roma, in procinto di naufragare sulle coste di Cartagine.
“Didone ed Enea”, spettacolo storico della compagnia Controluce, è la messinscena del melodramma in tre atti del compositore inglese Henry Purcell, rappresentato per la prima volta nel 1689. Teatro d’ombre e teatro d’opera si incontrano in una sofisticata coreografia di movimenti misurati, solennità lirica e rarefatte immagini dipinte, uno sposalizio di epica ed elegia reso possibile dal cromatismo onirico di Jenaro Meléndrez Chas, e dalla preziosa collaborazione con la classe di Canto Barocco del conservatoio G. F. Ghedini di Cuneo. L’ensemble di violini, violoncello e clavicembalo, insieme al coro diretto da Alessandro Maria Carnelli, evocano attraverso la musica una sorta di sortilegio immaginifico, una fiaba visuale che ricorda le fantasmagorie delle lanterne magiche e che pecca forse soltanto di una scarsa variazione di motivi. Le lampade poste dietro lo schermo sfruttano le specifiche trasparenze ed opacità dei materiali, creando un piacevole effetto candela: sulle aureole di calda e tenue luce colorata si esibiscono in armonica interazione sagome di cartone mirabilmente intagliate e i corpi vivi dei danzatori, abilmente disposti su diversi piani spaziali a creare sublimi effetti di profondità, improvvisi ingrandimenti e rimpicciolimenti.
Lo spettatore è così catapultato in una dimensione parallela che ha lo statuto diafano dell’apparizione, l’evanescenza di un sogno popolato di essenze eteree, compresenti in sala, fiocamente percebili dallo sguardo eppure impalpabili, prive di fisicità tangibile, una surreale pararealtà, se si consente il gioco di parole. Doveroso segnalare due scene altamente poetiche: la bianca crisalide che, con lo spegnersi dell’idillio romantico, minaccia di accartocciarsi su Didone e soffocarla, e l’accumularsi di strati di figurine umane, simili ai fregi delle metope dell’architettura classica, incisioni rupestri che sbiadiscono progressivamente l’una sull’altra, come graffiti d’acqua che si asciugano non appena tracciati: una suggestiva illustrazione del trascorrere e trascolorare di epoche e generazioni ma anche dell’inevitabile stingersi della memoria e, forse, dell’amore.

Dopo la riproposizione di uno dei suoi cavalli di battaglia, il festival Incanti regala invece una prima assoluta, “Cinema in silhouette”, del britannico Drew Colby.
L’ombra, si sa, con i suoi capricci chiaroscurali, detta legge in fotografia come nel cinema, e la mente del cinefilo non può che riandare con devozione al giganteggiare di Orson Welles sulle mura della Vienna de “Il terzo uomo”, allo spettrale simulacro del “Nosferatu” di Murnau o al presagio di insidiosa minaccia racchiuso nella silhouette del predicatore Harry Powell ne “La morte corre sul fiume”.

Colby conduce il pubblico in un viaggio di millenni a ritroso nel tempo, risalendo letteralmente alla preistoria del cinema, e suggerendo la fantasiosa ipotesi che l’ombromania sulle pareti delle grotte possa essere stata la prima forma di narrazione elaborata dall’uomo attorno al fuoco: gli albori delle ombre cinesi, insomma, che nel caso di Drew Colby sarebbe forse meglio definire ombre cinetiche. Sì, perché Colby non si limita a un esercizio virtuosistico di stile, a uno sfoggio di elasticità manuale, proiettando sulla tela i classici, statici contorni di animaletti o monumenti architettonici, bensì dà vita a vere e proprie sequenze, come la spettacolare corsa del coniglio inseguito dal lupo – che restituisce l’illusione di un vero e proprio montaggio alternato – o il fenomenale duetto canoro con Frank Sinatra.
Colby ricrea il cinema delle origini nella sua sostanza più pura: immagini in movimento; e con il solo ausilio di qualche famosa colonna sonora registrata, riproduce in carrellata le scene più iconiche della Settima Arte, quelle impresse ormai indelebilmente nell’immaginario collettivo. L’autore non si nasconde come di consueto dietro lo schermo ma si vi si pone davanti, mettendo il proprio stesso profilo in dialogo con le proprie creazioni, e ritagliandosi un ruolo di scanzonato stand-up comedian che ironizza sui profili presidenziali americani, condisce di aneddotica autobiografica la performance ed invita persino la platea a una riflessione più teorica sulla natura effimera ed estemporanea dell’ombromania, una tecnica marionettistica che non genera alcun artefatto, ma vive fra i battiti di ciglia, consumandosi nel respiro di un momento e non lasciando alcuna traccia di sé. L’inevitabile stilizzazione su cui si fonda questo teatro povero e minimalista, con le sue figure appena accennate e sbozzate, fa sì che lo spettatore sia investito del compito stimolante di identificare le caduche esecuzioni prima che queste si dissolvano, e prima che le mani dell’artista, da vere primedonne, si inchinino a ricevere gli applausi.

E da mani delicate che descrivono fugaci storie di fumo, si esce infine dall’universo delle ombre a riveder le stelle, e si passa in mani che facilmente cedono alla lusinga del bastone, la cachiporra. Tocca infatti ai raffinati burattini in legno degli spagnoli Alauda Teatro, arrivati da Burgos, burattini costruiti e animati da Rafael Benito e accompagnati dalle note di Isabel Sobrino.
Il fascino arcaico dell’organetto a manovella, insieme all’eleganza composta del violoncello, ci trasportano subito nell’atmosfera gioiosa e carnevalesca delle antiche feste di piazza. A catturare l’occhio è subito la grazia artigianale e fanciullesca sprigionata dal castelletto al centro del palco, una baracca ornata di tendaggi di velluto rosso a mo’ di piccolo sipario e di pannelli laterali istoriati a richiamare “Il giardino delle delizie” di Hieronymous Bosch.

Da questo paganeggiante pulpito o baldacchino in miniatura, microcosmo delle umane tribolazioni, si affaccia il nostro buffo protagonista: “Cristóbal Purchinela”, fratello iberico del Guignol francese, del Punch inglese, del Kasperl alemanno, del Karagoz turco, del Dom Roberto portoghese, del Fasoulis greco e, ovviamente, del Pulcinella nostrano, erede dello Zanni della Commedia dell’Arte cinquecentesca. Diverse declinazioni etniche della medesima maschera, un archetipo transculturale di sfrenata vitalità che presenta sorprendenti costanti caratteriali: la divertente irascibilità dell’attaccabrighe e del cercaguai, una paradossale scaltra ingenuità, la focalizzazione sui bisogni e gli impulsi più immediati, e quella beffarda irriverenza capace di sovvertire le gerarchie sociali e financo di affrontare la seriosità di tematiche metafisiche e di questioni ultime, quali la finitudine umana, la giustizia, la fame, la povertà e l’atavica oppressione del popolo. Un’eterna chiassosa baruffa che combatte con voce chioccia la sorte avversa e le ordinarie disavventure del quotidiano.

Le gag non possono che essere quelle classiche del repertorio farsesco tradizionale: l’irrisione dell’ottuso gendarme – emblema del potere e dell’ordine costituito, la lotta all’ultimo sangue con gli animali più stravaganti – qui un pollo e un coccodrillo – allo scopo di riempire la pancia, o ancora la contesa in furbizia con l’avido Pantalone. Gustosissima la scena dello sdoppiamento onirico di Cristóbal che si azzuffa con se stesso, ultimo bersaglio di quest’irrefrenabile, rissosa vitalità esistenziale, come anche l’esasperazione della Grande Mietitrice, la Morte, vinta per sfinimento.
Non è un caso allora che, nella sua raccolta di “pensieri, aforismi e bizzarrie” del 1933 “Il sacco dell’orco”, l’intellettuale Giovanni Papini abbia dedicato al teatro di figura un curioso omaggio, che ne coglie tutto lo spessore escatologico e filosofico: “Tombe e burattini. I teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte − nei secondi quel che sarà dopo la vita”.

Alauda Teatro in Cristobal Purchinela
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