Fringe to Fringe: da Roma la ricerca d’un teatro barbarico

Cara Utopia su uno dei palchi del Roma Fringe Festival
Cara Utopia su uno dei palchi del Roma Fringe Festival
Cara Utopia su uno dei palchi del Roma Fringe Festival

“Se si toglie l’illuminazione al teatro contemporaneo, il teatro scompare. Il nostro è un teatro in un altro modo, molto giocato con la parola. Il nostro teatro è “barbarico” nel senso che è un teatro delle origini, primordiale. È il pubblico che si ritrova in un luogo e partecipa a una ritualità. A questo pubblico si racconta una storia. È un teatro ‘epico’”.

Così parlò Giovanni Lindo Ferretti, rilavorando Brecht sul teatro d’oggi; e così è al Roma Fringe Festival. Non soltanto perché i tre palchi sembrano aprirsi come feritoie sul fortilizio di Castel Sant’Angelo (nella foto), concedendo all’occhio di guardare al contemporaneo passando per le mura antiche del mausoleo di Adriano. È la ritualità del pubblico e delle compagnie che si cercano e si ritrovano tra i botteghini del Fringe che restituisce all’evento quella dimensione epica e partecipativa del teatro. Del teatro inteso come luogo in cui si racconta una storia, ‘minimale’ per l’impianto scenico a disposizione, ‘barbarico’ in quanto aperto a tutti e a disposizione dell’esercizio di forza organizzativo delle varie compagnie nell’imporsi al pubblico, ‘primordiale’ in quanto il pubblico, nella scelta dello spettacolo, si affida in primis alla propria ispirazione.
Anche quest’anno sui palchi del Fringe, almeno a giudicare dalla prima settimana, la scena passa dai livelli più profondi dell’off a spettacoli prodotti da realtà più note, dalle compagnie amatoriali a quelle professionali, da applausi a scena aperta di comitive di amici romani a volenterosi attori arrivati dal resto d’Italia alle prese col volantinaggio creativo.
La difficoltà per l’organizzazione nel gestire le risorse quando si fa una selezione di 70 compagnie ne mina sicuramente l’omogeneità del livello, e non di poco. Ma è proprio questo a permettere un ‘barbarico’ e prezioso ritorno alle origini, alle piazze, dove è il pubblico a poter incensare o cassare uno spettacolo a prescindere dall’etichetta, dal circuito in cui è inserito o dal favore della critica che lo accompagna, permettendo soprattutto di dare visibilità (nel bene e nel male) a realtà che altrimenti rimarrebbero nascoste ai più.
In questa prima settimana, tra i dodici spettacoli visti sulla quindicina andati in scena, ha lasciato ancora una volta il segno Claudia Crisafio con “Cara Utopia”. Arrivata in semifinale assieme alla positiva sorpresa “Come d’autunno” di iloveyousubito sulla Grande Guerra, hanno entrambi ceduto il pass per la finale all’originalissimo “Gli ebrei sono matti” di Dario Aggioli, del quale avremo modo di parlare più in là.

Tra le sorprese non arrivate in finale è spiccato sicuramente il giovane Cesare D’arco, uno dei tre fratelli che in “Ammazzali”, della compagnia Scena Teatro, ha dato voce alla farsa grottesca di una ribellione familiare, che iniziata con l’illusione di affrancare, finisce poi per distruggere. Lalo, Bebo e Cuco, ispirati da “La notte degli assassini” di José Triana, sono tre figli cresciuti con due genitori severi, caustici, irrisolti; e irrisolti, alla fine, resteranno anche loro.

Rinchiusi nello spazio di una cantina continuano a vestire i panni dei carnefici e degli assassini nel gioco perverso del simulare il parricidio e il matricidio di quei due genitori non all’altezza. Quella che sembra l’unica maniera per liberarsi dagli errori dei padri diventa un altare su cui sacrificare sé stessi in nome di una vendetta contro un passato che non andrebbe combattuto, ma semplicemente abbandonato e lasciato lì dov’è. «Perché non te ne vai di casa allora?» domanda a un tratto, provocatorio, Cuco (Alessandro Tedesco) a Lalo, che continua a chiedere ai fratelli di non interrompere il sadico gioco, mentre Bebo (Victor Stasi) si muove sul fondo della scena ammaestrato come un elefante che, in piedi su una zampa sola, aspetta che arrivi il suo turno. Bebo non risponde, perché rispondere vorrebbe dire dover lasciare la rete delle recriminazioni che così come imprigiona, allo stesso tempo rassicura. La farsa diventa quindi un meccanismo senza uscita nel quale i tre fratelli rimarranno incastrati. Lavoro interessante, che non manca di una sofferta e claustrofobica ironia nella regia di Antonello De Rosa, che immerge il pubblico nel grottesco dando potenza alla prova convincente dei tre interpreti.

Il percorso di “Drug Queen” (YgramulLudici Manierati) inizia invece come un mistero fatto di gesti e voci lontani, una cosmogonia orientale, mistica, una voce ultraterrena – registrata. È Droga che parla e che crea, ci dicono le note di regia, regina sui popoli di tutto il mondo. Così, anche abbastanza improvvisamente, si scende sulla terra, e ci si imbatte in un paio di corpi, un uomo e una donna, e nei loro guai.

È la storia della lotta fra la bellezza e l’aspirazione alla grandezza, fra l’arte e la cecità di chi dell’arte si è stufato (quasi tutti). Ecco perché, allo sguardo di chi scrive, l’argomento sembra essere ben altro che la droga, e ben più alto. L’arte è ancora possibile, è ancora possibile la bellezza? Chi guarda e chi ascolta ha occhi e orecchi e cuore per farlo?

Per l’aspirante attrice, poi attricetta Marylin no. O meglio, la bellezza sarà possibile come sola contemplazione erotica, senza alcun senso ulteriore, e così lei diventa una che volentieri i registi riprendono di spalle, per evitarne la sconclusionata incapacità recitativa, e sostituirla con una schiena e un fondoschiena ben più virtuosi. Per il pittore fallito Andy l’unica possibilità sarà invece la banalizzazione di un talento forse mai veramente posseduto, la comoda ripetizione in serie, studiata per il possesso e il mercato.

Un percorso verso la coscienza che i due protagonisti rendono sopra un palco illuminato quasi a giorno, che però non nega alla luce “scelta” il suo ruolo, e non vuole cedere veramente del tutto all’epicità di cui sopra.

Doppiamente coraggiosi col concetto e con la tecnica Vania Castelfranchi, anche regista, e Valentina Greco, rispettivamente Andy e Marilyn. E se l’efficacia della regia sta nella performance salda che i due mettono sul palco, e nella congerie di stili che vi si incontrano (dalla commedia dell’arte a lampi di kabuki), quella della scrittura sta nella gestione di due storie che, partendo come due interrogativi ancora lontani, finiscono per incontrarsi in una soluzione unica e perfetta, con uno stupore forse ingenuo (non bastano già i nomi di Andy e Marilyn per suggerire quelle facce multicolori che campeggiano persino nel più spento degli autogrill?), ma che la drammaturgia di Emmanuele Rossi riesce a far esplodere, pieno di una meraviglia persino un po’ smarrita.

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3 Comments

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  1. says: Redazione Klp

    Devi pazientare. Segui le prossime puntate e lo scoprirai… comunque non è stata una dimenticanza.
    TO BE CONTINUED…

  2. says: Dario Aggioli

    Ma ‘ “Gli ebrei sono matti” di Dario Aggioli, del quale avremo modo di parlare più in là.’ vuol dire che se ne è poi dimenticato nel pezzo o che uscirà una recensione ad hoc?