Generazione Zero: il Giappone visto da Takahiro Fujita. Intervista

||
Takahiro Fujita (photo: Kishin Shinoyama)|Dots and lines (Photo: Ilaria Costanzo)|Un momento del workshop a Messina (photo: Elisabetta Reale)
Takahiro Fujita (photo: Kishin Shinoyama)
Takahiro Fujita (photo: Kishin Shinoyama)

Punti. Linee. Tracciate dai ricordi, dalla memoria che si sedimenta nel tempo e finisce, talvolta, per svanire, perdersi, confondersi nei contorni, segnando una netta distanza tra il passato e il presente. Attorno a questi punti e a queste linee, disegnati nello spazio scenico e tratteggiati dalle parole e dai gesti dei performer in scena, si costruisce la drammaturgia, forte nel messaggio, ciclica nei temi e tempi, del regista giapponese Takahiro Fujita, classe 1985, una delle figure più interessanti della cosiddetta “generazione zero”. 

Come una formula magica, “Dots and lines, and the cube formed the many differente worlds inside. And light?”, il titolo-refrain dello spettacolo dei Mum & Gypsy, appare sullo schermo dove corrono, in doppia traduzione, italiano ed inglese, le parole che riempiono di senso suoni e melodie pronunciate degli attori in scena, ma anche immagini e punti che scandiscono il tempo. 

A conclusione di un lungo tour europeo, ad un anno dalla presentazione a Firenze, a Fabbrica Europa – allora col titolo “Dots, lines and the cube. A world and the others in the cube that shines” – e dopo le tappe a Pontedera e Ancona, lo spettacolo è approdato a Messina, al teatro Vittorio Emanuele, stravolto per l’occasione, grazie ad un allestimento che ha visto insieme, sul palco, attori e pubblico. La performance ha inaugurato la sezione internazionale di un cartellone dove il contemporaneo cerca di farsi spazio in una programmazione “tradizionale”.

L’uccisione, efferata ed orribile, di una bimba che ha sconvolto la vita di un piccolo paesino nella provincia giapponese, le vicissitudini di un gruppo di giovanissimi studenti, la loro voglia di andar via, il loro malessere nei confronti degli adulti incapaci di comprenderne disagi e bisogni. Vicende personali si intersecano con fatti di cronaca, procede così la drammaturgia di Fujita, che apre uno squarcio sul mondo, si riempie di gesti reiterati, suoni pieni e avvolgenti. Punti di una linea che traccia memoria e attraversa il mondo. La memoria, il tempo, l’esigenza di seguirne il fluire, giocano un ruolo preponderante nella drammaturgia di Fujita, che decide di portare sulla scena avvenimenti accaduti nel 2001, anno che il mondo ricorda per il crollo delle Torri Gemelle, ma è un continuo gioco di rimandi e di sguardi tra passato e presente. 

A dieci anni di distanza quell’evento viene ricordato, come pure l’efferato delitto della bimba e la sparizione, avvenuta contemporaneamente al delitto, di Aya, una dei sei giovani protagonisti in scena. 

Dello spettacolo, della sua drammaturgia e della “generazione zero”, del workshop che la compagnia ha affiancato alle performance nelle tappe italiane del tour abbiamo parlato col regista giapponese. 

Dots and lines (Photo: Ilaria Costanzo)
Dots and lines (Photo: Ilaria Costanzo)


Uno spettacolo che parte da un fatto di cronaca per poi dare spazio alla parola, al gesto, al ricordo, alla luce. Come nasce la struttura drammaturgica?
Sono partito creando piccole scene, come per esempio i ricordi delle tre ragazze, il collasso degli edifici del World Trade Center dell’11 settembre riprodotto utilizzando il gioco Jenga, e poi le ho assemblate e montate insieme.

Quali le caratteristiche, le istanze, le radici della “generazione zero” giapponese a cui appartieni?
Il regista Oriza Hirata ha distrutto quello che era stato costruito fino a quel momento nel teatro tradizionale giapponese: i suoi attori danno la schiena al pubblico creando nuovi spazi rispetto al teatro tradizionale, ha portato sulla scena il linguaggio colloquiale, quotidiano. Tutte le performance che hanno adottato questi aspetti fanno parte di quella che si chiama “zero generation”. Ho cercato quindi di non copiare o ripetere quello che ha fatto Hirata, ma ho cercato di creare qualcosa di nuovo attraverso la tecnica della ripetizione, creando scene con periodi di tempo diversi al loro interno. Collaboro inoltre con diversi artisti durante la creazione delle mie performance: musicisti, scrittori, artisti visivi dai quali traggo ispirazione.

Ti definisci “un regista di memorie”: come la memoria si trasforma e si attualizza nei tuoi spettacoli?
La memoria per me é tutto quello che si ripete nella nostra mente. Non solo la memoria relativa alle esperienze personali ma anche quella di eventi che coinvolgono intere popolazioni, che si ripetono nella mente di tutte le persone. E questo é un processo che non cambia, non si modifica non si evolve. Non sono interessato a portare il futuro sulla scena, a rappresentare quello che accadrà in Giappone fra dieci anni per esempio. Quello che mi interessa è rappresentare il presente, perché lo vivo e posso metterlo in scena “live”, come un concerto. Per far questo posso però utilizzare il passato e tutto quello che è avvenuto prima di adesso.

In questo anno di confronto con l’Europa e l’Italia come è mutato il tuo lavoro sulla scena? E la lingua ha rappresentato più in limite o una risorsa?

Il linguaggio non è un limite, ma piuttosto ritengo che parlare una lingua diversa sia molto divertente ed interessante. Quando parlo con una persona giapponese questa cerca di capire il significato delle mie parole, mentre un italiano ascolta la mia lingua come fosse un suono.
Per me è quindi molto stimolante creare una performance per un pubblico che ascolta il giapponese come suono, come musica. Ci sono delle differenze tra una performance che presento in Giappone e una che invece presento all’estero, ma credo ci sia comunque un linguaggio universale. Quello che sto cercando di creare è questo linguaggio comune, cosicché le mie performance possano essere comprese ed apprezzate sia in Giappone che all’estero. Tutto questo processo di ricerca rende estremamente interessante il mio lavoro di creazione.

Un momento del workshop a Messina (photo: Elisabetta Reale)
Un momento del workshop a Messina (photo: Elisabetta Reale)

Come nasce e quali sono le strade percorse dal workshop “Walking and movement” che affiancate allo spettacolo?
Attraverso questi workshop cerco di trovare spunti ed ispirazioni per il mio lavoro. Mi interessa inoltre capire qual è la vita quotidiana delle persone che partecipano al workshop. Faccio quindi loro domande molto semplici: come si sono svegliati, come hanno raggiunto il luogo del workshop… partendo da questo elaboro delle piccole scene.

Insieme a voi, in queste date europee, c’è un giornalista e blogger. Quanto è importante la testimonianza, il racconto, il fermare incontri ed eventi per il vostro lavoro drammaturgico?
Molti registi giapponesi prima della mia generazione hanno presentato i loro lavori all’estero, ma mi sono reso conto che non c’è alcuna testimonianza o traccia, e che quindi nessuno in Giappone era a conoscenza di ciò che avevano fatto al di fuori del Giappone. E non ha senso venirne a conoscenza quando è tutto finito: è troppo tardi. 
Avere un giornalista, un blogger che ci segue fa in modo che questo tour abbia senso anche per il pubblico giapponese. Ogni giorno infatti redige una sorta di diario di bordo in modo che il pubblico e le persone che seguono il mio lavoro sappiano quello che avviene qui ma anche quello che faccio in Giappone al di fuori di Tokyo. Infine la presenza di quest’occhio esterno mi mette in una posizione di stress positivo, mi permette di non adagiarmi e di riflettere sempre su quello che sto dicendo e spiegando.

Vi definite dei nomadi del teatro, “gypsy” appunto. Cosa cercate in questo girovagare e qual è la madre che portate con voi sin dal nome?

Identifico il nome della compagnia con me stesso dato che per ogni creazione collaboro con attori, performer e anche con un staff tecnico diverso.
Io sono il centro della compagnia, sono “mum”, e ogni performance è un nuovo viaggio insieme a persone diverse: questo è il significato di “Mum&Gypsy”. 

Quali i progetti futuri dopo “Dots and lines, and the cube formed the many differente worlds inside. And Light”?
La mia prossima creazione sarà realizzata per il pubblico straniero, e verrà presentata in prima mondiale al TPAM in Yokohama 2015. Sarà una performance di 90 minuti con tre attrici e il focus sarà la diversità in termini di razza, aspetto fisico e sul perché le persone si sentano così a disagio nei confronti di coloro che sono diversi.

Dots and lines, and the cube formed the many differente worlds inside. And Light?
testo e regia: Takahiro Fujita
interpreti: Aya Ogiwara, Shintaro Onoshima, Ayumi Narita, Satoshi Hasatani, Jitsuko Mesuda, Satoko Yoshida
collaborazione musicale: Yoshio Otani 
disegno luci: Kaori Minami 
suono: Rie Tsunoda
direzione di scena: Susumu Kumaki
tour manager: Yuko Uematsu 
traduzioni: Miwa Monden
organizzazione: Kana Hayashi
produzione: Mum & Gypsy, coproduzione: Steep Slope Studio

durata: 1h 20’

Visto a Messina, Teatro Vittorio Emanuele, il 5 novembre 2014

0 replies on “Generazione Zero: il Giappone visto da Takahiro Fujita. Intervista”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *