Kilowatt tra giovani ed Europa, in cerca dello straniero

Season di Giorgia Nardin|Mad in Europe (photo: Manuela Giusto)|Prima assoluta per (Un)trapped – Identity or death
Season di Giorgia Nardin|Mad in Europe (photo: Manuela Giusto)|Prima assoluta per (Un)trapped – Identity or death

Quando la mattina del 24 giugno ci siamo resi conto che la maggioranza dei votanti del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea aveva optato per quella che viene comunemente chiamata Brexit, abbiamo anche chiaramente capito come il sogno di una “confederazione”, che superasse barriere e confini di un passato recente tremendo e devastante, fosse molto fragile, se non addirittura un’utopia. Analizzando il voto è risultato evidente come la differenza di idee, desideri e volontà sia così variabile a seconda delle fasce d’età. L’Europa è sembrata e sembra un sogno che appartiene in gran parte ai giovani. Sono loro che più agognano e desiderano un territorio senza confini, unito e compatto. Ma la realtà nell’insieme si presenta molto diversa e si deve fare grande attenzione.

I giovani e l’Europa sono due concetti che hanno attraversato molti dei lavori di Kilowatt edizione numero 14, questo “tempo di risplendere” così fortemente dichiarato. Verbo difficile, se non proprio impossibile, soprattutto dopo gli eventi che continuano a verificarsi in questi giorni: un disastro ferroviario figlio di errori e arretratezze, un attentato tremendo a Nizza che solo pochi giorni prima sarebbe sembrato la sceneggiatura di un action-movie a cui sono seguiti altri tre atti folli in Germania, e ancora un colpo di stato, non sappiamo quanto vero o costruito ad arte, in una Turchia che, anelante da anni l’ingresso nella UE, si è ora avviata su sentieri pericolosi seguendo orme allarmanti. Problematiche di un’Europa che si rispecchiano in ogni stato membro.

In questa direzione ci sono sembrati procedere i due lavori in prima assoluta “This home is not for sale” e “(Un)trapped – Identity or death”, esiti finali del progetto europeo Playing Identities, guidato dall’Università di Siena con quattro partner di altrettanti paesi europei, nato per indagare le basi della nostra identità comune.

Nel primo quattro giovani attori rumeni, guidati dal regista britannico Harry Wilson, narrano di un’imponente operazione di prelievo attuata da una compagnia romeno-canadese in un piccolo villaggio, Roşia Montană, il più antico sito in Europa per l’estrazione di metalli preziosi.
L’iniziale dinamismo divertito e divertente della messinscena, con una presentatrice instancabile, narcisista ed energica e tre candidati, che in una sorta di quiz si contendono la vittoria, lascia piano piano il posto alle vicende e alle contraddizioni di una nazione che, pochi decenni or sono, ha sofferto una terribile dittatura comunista che ha lasciato aperte ferite interne profonde, che tuttora sembrano segnare la popolazione.

Con l’incedere il lavoro si struttura in modo più tragico, con discese nel dramma, talvolta scadendo un po’ in una sagra dello stereotipo che toglie un po’ di forza al dinamico incipit.
La riflessione si fa più profonda nelle intenzioni, emerge la lunga lotta degli ecologisti che nel 2015 sono riusciti a bloccare l’operazione di prelievo, grazie alla forte coesione degli abitanti (uniti si vince, lo slogan ripetuto quasi allo sfinimento, tante volte si rischiasse la poca chiarezza), che viene presentata alla fine del lavoro come soluzione fondamentale e fondante per le scelte e lo sviluppo di decisioni politiche future. In Romania come in Europa. Purtroppo è un finale leggermente melodrammatico e un po’ scontato, comunque molto apprezzato da gran parte del pubblico presente.

Anche “(Un)trapped – Identity or death” ha come protagonisti quattro giovani attori, allievi dell’Accademia di Musica e Teatro di Vilnius. Notevole la loro prova. Dimostrano qualità attorali non comuni.
Sotto la guida del regista catalano Sadurnì Vergés i performer lituani mettono in scena un lavoro intelligente, vivace, compatto, che molto deve alle qualità dei quattro.
Si parla di Lituania, se ne decantano, quasi fossimo all’interno di una pubblicità, le bellezze e le peculiarità. Inserti riuscitissimi e divertenti, sempre sorretti dal talento sorprendente dei protagonisti.
Ai quadri promozionali si alterna la storia di uno scontro familiare: un padre scopre l’omosessualità del figlio e lo caccia di casa. Il giovane fugge a Berlino dove ritroverà un’inattesa serenità, e una volta tornato a casa sarà accolto dall’abbraccio del padre pentito. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Ma lo spettacolo nell’insieme emana freschezza ed è credibile, energico e vivo. Il talento e l’umiltà uniti possono dare buoni risultati.

Prima assoluta per (Un)trapped – Identity or death
Prima assoluta per (Un)trapped – Identity or death

Ancora di Europa si parla nel lavoro di Angela Dematté, “Mad in Europe”, premio Scenario 2015. Qui si tratta di nevrosi ed emarginazione, ed al contempo anche di appartenenza, di radici che tutti ci portiamo dentro, seppur vergognandocene molte volte, tesi come siamo a rifiutare il nostro passato (qui simboleggiato dal dialetto parlato dalla nonna), lanciati nella confusione del nuovo, del contemporaneo, dell’europeo, in una babele di lingue estranee, metafora di tradizioni, abitudini e “sentimenti” a noi distanti.

Una donna incinta impazzisce al Parlamento Europeo. Nessuno sa bene cosa fare. Parla un mix di lingue, costituito soprattutto da francese, inglese, spagnolo, tedesco e dialetto. Gli psicologi si mettono al lavoro, ma niente sembra poter guarirla. Dilaniata dalla nevrosi, spersa, apolide, si rifugia nell’attesa di partorire in una chiesa sconsacrata dove vive da emarginata.

Angela Dematté costruisce una drammaturgia interessante e assolutamente attuale, ricca di spunti, costellata di un umorismo pungente, da continui cambi di ritmo e scena – costruiti con un allestimento che si avvale di pochi elementi – e dall’alternarsi del punto di vista dell’autrice stessa, quasi voce narrante che cerca di esplicare certe scelte drammaturgiche. Allo stesso tempo illustra questo viaggio della donna alla ricerca di sé stessa, delle sue origini, qui tratteggiate attraverso la metafora della lingua madre, tra continui rimandi all’educazione cattolica, che su di noi italiani ha sempre facile presa, simboleggiata dalla statua di una Madonna di notevoli dimensioni che compare in gran parte del lavoro oltre che da canti di chiesa registrati, salmodiati da voci di beghine.

Si ride spesso, soprattutto di questa sorta di esperanto inventato di sana pianta, che sembra rimandare a quel dialetto misto che parlava Salvatore, uno dei frati benedettini protagonisti della versione cinematografica de “Il nome della rosa”, interpretato dall’ottimo Ron Perlman.
Purtroppo il finale però perde forza, nel suo essere forse troppo manifestamente drammatico, non tanto per la riscoperta della lingua d’origine e quella ritrovata fierezza e coscienza, aliena dalla vergogna del proprio nucleo familiare, quanto per quel rapporto madre-figlio appena partorito che svela alla donna una “vera” lingua, universale e “piena di grazia”, potremmo dire strappando un lacerto dall’Ave Maria. Scelta che vanifica un po’ quel lato improvvisato, raffazzonato, dinamico e divertente, quei flussi di coscienza confusi, eppure così pungenti e acuminati che rappresentano la robustezza del lavoro.

Ancora giovani e gioventù nell’anteprima nazionale di “Season” della coreografa Giorgia Nardin.
Gioventù in scena dei quattro danzatori ed anche gioventù di corpi che replicano per l’intera durata del lavoro (rimando allo Sciarroni di “Folk-s” e “Turning”?) una partitura di danza “circolare”, che si nutre di incroci e attraversamenti continui, a percorrere l’intero lavoro.
Se pur all’inizio sembra chiudersi e limitarsi a mera provocazione diventa poi foriera di atmosfere e rimandi degni, come dichiarato nella presentazione, di un’opera d’arte tutta da contemplare, in attesa delle aperture che provoca nella nostra mente.

Season di Giorgia Nardin
Season di Giorgia Nardin

Grazie al disegno luci di Dennis Doescher – con il “Canone di Pachelbel” che ci accompagna per l’intera durata della performance – questi quattro ragazzi sembrano guidarci attraverso le atmosfere della “Primavera” del Botticelli, o a tratti ci conducono per mano nella campagna dove, per sfuggire alla peste – e come non riandare all’epidemia di violenza che attraversa la nostra Europa in questi anni e da cui tutti sogniamo di essere immuni e lontani – si rifugiano i protagonisti del Decamerone.
È un sogno, il racconto di una giornata dall’alba al tramonto carica di sole, una danza intrecciata e continua, interrotta da brevi partiture, piccoli solo di giovani distratti, assorti in sé stessi oppure provocatori attori di gesti e sberleffi, di colpo pronti a rientrare in questa danza di incroci, vicinanze, contatti fugaci se pur intensi.

È un lavoro che chiede molto allo spettatore. Forse nella prima parte sin troppo. Ma se si ha la pazienza di superare i primi venti minuti, “Season” si rivela sorprendente, sia concettualmente che visivamente. Nella ricchezza ed abbondanza di spunti, dimostra una generosità rara verso lo spettatore.

Parlando di generosità di un lavoro, di quanto uno spettacolo a cui si assiste possa regalare allo spettatore, soprattutto se estraneo dal giro degli addetti ai lavori (che poi dovrebbero essere “Adatti ai lavori” come ha felicemente sottolineato Piergiorgio Giacchè durante uno degli incontri del premio “Lo Straniero” all’interno del festival Inequilibrio) merita un discorso a parte il felicissimo “The stranger” di Daniele Bartolini, sorpresa assoluta, “format urban-immersive” per uno spettatore alla volta, con protagonisti giovani attori di Sansepolcro. In questo sta uno dei punti di forza del lavoro: grazie agli interpreti biturgensi, le riflessioni proposte e sperimentate nelle tappe del cammino, acquistano forza e verità.

Daniele Bartolini è un artista che ha sperimentato sulla propria pelle l’esperienza di andarsene all’estero per trovare una propria via. Destino comune in questi ultimi anni a molti ragazzi della penisola. Vive a Toronto e si muove per il mondo grazie ai suoi progetti. Anche “The stranger” infatti sarà presentato fuori dai confini nazionali: Canada e Berlino le prossime tappe. E siamo sicuri che sarà accolto con grande successo come è accaduto qui a Kilowatt.

Perduti in un labirinto urbano siamo condotti in un percorso attraverso il piccolo centro della Valtiberina. Dapprima bendati, mani e voci ci conducono per stradine laterali al centro cittadino. La vita quotidiana degli abitanti indaffarati ci scorre accanto e non sappiamo ancora che ci sarà affidato un compito – individuare lo ‘straniero’ – e faremo incontri con stravaganti personaggi in luoghi nascosti. Troveremo un pianista prestidigitatore che improvviserà una musica con cui descriverci, poi una ragazza dalla ricciuta chioma rossa ci condurrà in una passeggiata dove seguiremo degli estranei provando a ipotizzarne le esistenze, poi ancora ascolteremo una strana storia in una mansarda e toccherà anche a noi raccontarla.
Di seguito, condotti in un atelier scalcinato, indossata una tuta da lavoro e scarpe imbrattate di vernice, aiuteremo un bizzarro pittore a realizzare un’opera per mezzo di tecniche ed azioni eterogene, liberandoci un po’ della rabbia di tutti i giorni. Infine seguiremo ipnotizzati i graziosi movimenti e il dolce sorriso di una danzatrice fino all’ultima tappa, sulla torre dell’Aboca Museum: 84 scalini che mozzano il respiro ci condurranno frastornati al cospetto di due ragazze, rose dal dubbio se cambiare vita oppure no, se lasciare tutto quello che hanno e fuggire all’estero, oppure tornare a casa, prendere il poco che la vita offre loro, che è pur tanto, e rimandare ogni decisione al domani.

In tutto questo scopriremo alla fine che lo ‘straniero’ che ci era stato chiesto di scovare, siamo noi stessi. Tutto qui? Si dirà. Il contrario, invece. Perché questo “The stranger” è un progetto che ci conduce su di un crinale scivolosissimo senza mai farci precipitare a valle, permettendoci di respirare l’aria pulita della vetta: da un lato si può cadere nel già detto e visto, nello scontato, nel semplicistico. Dall’altro invece si apre un panorama luminoso, colmo di emozioni e che più si ammira più lascia senza respiro. Un panorama che davvero risplende, ricollegandoci all’imput di questa edizione di Kilowatt.

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