RE-Opening 2020. Impressioni di Lenz: testo e contesto di un linguaggio

Re_Opening Mondi nuovi
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Lenz, un caposaldo del nostro teatro di ricerca: Maria Federica Maestri e Francesco Pititto lo portano avanti a Parma, attraverso molteplici avventure, dal 1986.
Una simile storia non dovrebbe essere oggetto di “impressioni” come le presenti: fosse anche solo per l’età dell’impresa, essa merita studi articolati. D’altra parte, un percorso lungo è per forza suscettibile di incontri parziali, di attraversamenti fuggevoli e un poco ingenui, che colgono lo svolgimento della storia in una quasi casuale tranche de vie.
Così, per chi scrive, l’invito a Parma è giunto inaspettato, come improrogabile è stata la necessità di fermare su carta l’esperienza del RE-Opening di settembre/ottobre, con i suoi tre nuovi soli da Calderón de la Barca (ne abbiamo visti due) e una coppia di videoinstallazioni (abbiamo assistito alla sola “Melanconia contromano”) a essi connesse.

Dietro la stazione centrale di ogni città incombe tradizionalmente la ‘zonaccia’: c’è la famigerata droga, i ragazzini sono messi in guarda dal frequentarla, e la sera si fa il giro largo per evitarla.
Anche Parma non fa eccezione, anche se l’accezione emiliana del temine ‘degrado’ appare assai sfumata, se confrontata con quella delle grandi città. Qui, fra i vari capannoni più o meno dismessi di un’antica periferia industriale, si affaccia un’insegna sobria, su cui è la scritta azzurra in campo bianco di Lenz. Indica ciò che è oggi l’unione tra Lenz Rifrazioni, nata appunto con lo spettacolo tratto dal racconto büchneriano nell’86, e Natura Dèi Teatri, il festival che continua in quegli spazi ancora oggi [avrebbe dovuto tenersi dall’11 novembre, ma in seguito del DPCM del 25 ottobre è rinviata a luglio 2021].
Nel 2016 Università di Parma e Comune di Parma ne diventano soci sostenitori; nel 2017 Lenz Teatro viene acquisito dal Comune di Parma.

Come si presenta la casa di Lenz: un cortile un po’ spoglio, una lunga scala di metallo, l’ingresso dello spazio, due belle e larghe sale per gli allestimenti e l’ufficio, aperto e passante come un corridoio.
Ma al visitatore, che nel frattempo ha visto avvicinarsi l’ora dello spettacolo, ciò che fa stupore è altro. Mentre si acquistano i biglietti e si osservano le locandine alle pareti, tutti, operatori e pubblico, si chiamano per nome, e non solo tra di loro, ma gli uni con gli altri. Ci si ritrova come a un appuntamento segnato da tempo, ci si aggiorna sulle novità delle rispettive esistenze, si fuma una sigaretta sul ballatoio con la scusa di levarsi la mascherina (o il contrario), ci si lamenta anche un po’, ma senza troppa convinzione; c’è anche l’attrice di una produzione passata, che fa visita.
Il paragone più immediato che viene in mente è quello della piazza come luogo antropologico dell’incontro.

Se la persistenza sul territorio di Lenz è evidente in questa prospettiva di comunità, ribaltando il cannocchiale e puntandolo verso il sistema dell’amministrazione, della cultura e delle fondazioni, non si vede diversamente: negli anni il gruppo ha stretto legami con l’AUSL di Parma (decennale è il suo lavoro con i pazienti psichiatrici e con gli attori sensibili), con le Fondazioni Cariparma e Monteparma, con l’Università degli Studi, come si diceva, con la Fondazione Arturo Toscanini, e con molte altre associazioni e realtà locali, oltre che, in anni passati, con il Festival Verdi, che gli ha offerto commissioni.
È un modello che sa di impresa culturale a largo spettro e a lunga gittata, di teatro veramente/diversamente stabile, di Mitteleuropa – ma non ne vediamo anche a Ravenna, a Cesena di dinamiche paragonabili?
Il raggiungimento di questo virtuoso equilibrio ha permesso, fin da tempi non sospetti, un certo agio creativo a Lenz, e la possibilità di lavorare nientedimeno che per progetti triennali, di volta in volta centrati su un autore o su un testo in particolare – da Hölderlin all’Eneide, all’Amleto.

Arriva l’ora di fare sala.
È noto che i lavori di Lenz hanno da tempo una circuitazione nazionale e internazionale, e hanno assunto talvolta dimensioni anche molto notevoli per complessità di costruzione, diversità dei media coinvolti, localizzazioni site-specific in ambienti storici (il complesso monumentale della Pilotta, fra gli altri), partecipazione di interpreti diversi e numerosi.
Ma com’è, ci chiediamo, andare in scena a casa propria, di fronte a un pubblico che si conosce per nome e in una condizione, come quella segnata dai protocolli anticontagio, che fa un obbligo della misura dei mezzi e del contenimento dei rapporti, obbligando il linguaggio ad asciugarsi in un’economia che non può diluirsi negli accidenti o nella gradeur?
È possibile che in questa economia si possa leggere, fra le altre cose, l’esito artistico di un gruppo che vive la lunga esperienza del radicamento?

Proviamo a esplorare il modo in cui vivono sulla scena i due ‘soli’: “Hipògrifo violento” con Sandra Soncini e “Altro stato” con Barbara Voghera.
Per raccontarne, ancora una volta, le impressioni, si può iniziare sfogliando i cataloghi dei vecchi lavori di Lenz, nei quali i nomi delle due attrici passano regolarmente da anni, segno della concreta possibilità di farsi casa nella famiglia Pititto-Maestri.
“Hipògrifo” ha come scenografia una distesa di lunghi tubi innocenti (un topos della compagnia) tagliati e disposti su cuscini che ne ammorbidiscono il contatto con gli stativi, pure metallici, su cui posano, in un nitore estetico che ha la dignità di un’installazione – sul fondo due grandi finestre a riquadri danno sul prospetto di un nuovo condominio che scimmiotta CityLife e che lascia scorgere lacerti di una serata qualsiasi in casa d’altri.
“Altro Stato” ha invece nella scenografia un segno meno efficace, più frammentario e delegato agli attrezzi di scena, con tratti volutamente naïf (spade e corone di plastica, e la torre-carcere di Sigismondo affidata alla micrografia ironica di un letto a castello celato dietro uno schermo da ombre – letto inequivocabilmente Ikea).
Elementi comuni: le due rappresentazioni, basate su “La vita è sogno” di Calderón (che sarà oggetto del lavoro “grande” di Lenz nel 2021), sono entrambe costruite sopra la traduzione/riscrittura di Pititto; entrambe, poi, ruotano attorno al tema dello sdoppiamento (gracioso-principe in “Altro stato”, scenicamente spartito tra il davanti e il dietro lo schermo; uomo-donna per la Rosaura di “Hipògrifo”), elevando in questo modo il tema a un cubo in cui i due lavori, pur non parlandosi, collaborano a una prospettiva unica. Le attrici, da entrambe le parti, scolpiscono il testo, costruito sotto forma di scelta di versi dal dramma originale, frammentando la sintassi e riconfigurandone i nessi, distribuendolo su tessiture e con agogiche in perenne contrasto, spesso su un tono di tesa energia; lo stesso volume è per entrambe, benché una microfonata e l’altra no, tendente spesso alla saturazione.

Non vi è traccia di didascalismo né di realismo, ma una continua allusione a uno spezzettamento dei personaggi, e se per Voghera si può parlare di una duplicità di registro gestuale, per entrambi i lavori è difficile rintracciare una evidente progressione interna del discorso drammaturgico, che pure nei suoi elementi esterni è in continua apparente evoluzione.
L’uso del costume come segno identitario (Voghera alterna due tutine nera e oro, Soncini invece procede a una progressiva spoliazione da figura aliena con maschera antigas a donna a seno scoperto); due diverse eppur complementari idee di illuminazione (tagli cromaticamente e geometricamente netti per “Altro Stato”, un piazzato asciutto ma drammatico per “Hipògrifo”, perturbato da occasionali strobo); e per finire la esibita ma contenuta intertestualità (il Joker del ‘mostro’ Rosaura, che si tinge il volto di biacca e sporca la bocca di rosso proprio come Heat Ledger, e lo Sc’vèik-burattino che fa da doppio a Clarino): tutto ciò, insieme a quanto ricordato prima, congiura a rintracciare un linguaggio inciso, aggressivo. Sfrangiato, eppur omogeneo nella sua esibita anti-intuitività.

Tale turgido ermetismo comunicativo nella sua particolare assertività di linguaggio scenico, aggredisce il pubblico senza por tempo in mezzo sin dai primi minuti, e senza momenti di “aggancio” o di crisi.
Il suono penetrante, l’azione esplosiva o affilata sono pensate per lo scontro, eppure non producono “vere” ferite: sono sì riconosciuti dal pubblico come tali, violenti, ma chi guarda non risponde con il rifiuto o la timidezza che ci si aspetterebbe. Anzi, incassano bene, dalla platea, e la risposta è affidata a lunghi convinti applausi. È il pubblico di Lenz che ha fatto abitudine a quel linguaggio, o questi due pezzi di teatro, che suonano come un trobar clus sperimentalistico, sono un discorso a chiave, composto per chi conosce quella specifica, lungamente sperimentata, lingua teatrale?
L’impressione è quella di un pubblico che abbia imparato in passato a dischiudere il linguaggio di Lenz, e che da allora ha tenuto ben stretta in tasca quella chiave, tornando a farla girare nella serratura dei loro lavori ogniqualvolta essi gli si presentano, in una dimensione insieme didattica e sociale dell’esperienza del teatro di ricerca.
Questa complicità sembrerebbe poi aver agito anche dall’altro verso del rapporto: la normalizzazione, prodottasi nell’occhio di chi osserva, di un fare teatro che all’origine deve essere stato percepito come dirompente e per certi versi inaccettabile, potrebbe aver accompagnato l’istituirsi, nella fucina dei creatori, di una lingua conscia di sé stessa, tirata a lucido, persino protetta dall’alibi di una innegabile compostezza estetica, generosa e feconda nel lessico, ma irrigidita nella sintassi, assai più accogliente di quanto non sembrerebbe, così strutturata da faticare a rimettersi in discussione radicalmente.

Insomma, per chi incontra nella sua strada questa piccola faccia dell’opera di Lenz (questi due ‘soli’), una delle questioni da porsi è se le virtuose pratiche della stabilità e del radicamento abbiano portato alla costruzione di un pubblico aperto e avvertito il cui “grado zero” dello shock sia più alto del normale; o se la ricerca di un gruppo istituzionalizzato finisca per cadere in un’anticonvenzionalità assodata che rassicura invece di sconvolgere. Come se il grido e la voce spezzata attraversassero lo spazio della sala tranquilli del fatto che, comunque vada, saranno raccolti da chi già sapeva, prima di entrare in teatro, come raccoglierli.

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