Lo spettacolare viaggio nel tempo di William Kentridge

Refuse The Hour
Refuse The Hour
Refuse The Hour (photo: romaeuropa.net)
Quando si spengono le luci e il fruscio inconfondibile del sipario che scorre invita il pubblico al silenzio, e tu appoggi la schiena al velluto rosso della poltroncina, sentendo già l’abitudine al teatro come una specie di tepore confortante, e credendo che ormai sia difficile sorprenderti, ecco che ti ritrovi davanti una batteria sospesa nel vuoto, diversi metri sopra la scena. Una batteria che suona da sola. Pedali e piatti spinti alla ritmica da manovratori invisibili.
Allora pensi: o John Cage è tornato in vacanza sulla Terra, o qualcosa di molto interessante sta per accadere.
Per un’ora e mezza non ci sarà spazio né per abitudini né per schienali: tutti tesi in avanti a farsi rapire dalle volute cosmiche di William Kentridge e del suo “Refuse the hour”, arrivato al Romaeuropa Festival.

Kentridge è un artista eclettico: pittore, regista di sé stesso e dei suoi disegni animati, esordi da attore, abilità artigiana nel realizzare le sue installazioni.
Stavolta è in scena: dal suo leggio sul lato del proscenio dà voce a un testo diviso in capitoli, un montaggio brillante e mai compiaciuto di autobiografia, giochi di parole, citazioni letterarie (spicca il verso più celebre dell’urna greca di Keats: “Beauty is Truth, Truth is Beauty”), lirismo, riferimenti scientifici.

Il testo si dipana attorno al nucleo concettuale del tempo: si parte da un aneddoto dell’infanzia, quando il padre di William gli racconta il mito di Perseo, e lui si arrabbia tantissimo per quell’impossibile fuga dalla fatalità, quando la concatenazione degli eventi riesce, in modo pure assurdo, a chiudersi nel vertice stabilito, ad onta della presunta libertà d’azione dell’uomo.
Il nesso fra tempo e libertà, dunque: ma le parole di Kentridge, con una scioltezza e una facilità disarmanti, sottolineate dalla sua dizione e dall’uso – centellinato e curato – del corpo, attivano il loro magnete e ci trascinano in un viaggio che è sì meditazione sull’essenza del tempo, ma che è anche e soprattutto viaggio della fantasia, fascinazione.

Kentridge può parlarci, senza mai fare nomi specifici, delle teorie lineari di Newton e del tempo relativo di Einstein; può introdurci sottovoce al concetto di spaziotempo e al paradosso dei gemelli; può perfino usare il possibile nesso fra buchi neri e teoria delle stringhe per condurci al finale. Ma non c’è mai didascalia, mai pura informatività: la rete dei riferimenti, scientifici ma anche letterari, si dà come risorsa e adito all’immaginario.

Se, come ci ricorda Kentridge stesso, la luce ha una velocità finita, allora i nostri gesti di ogni attimo emettono delle informazioni che viaggiano nell’universo: fra otto minuti raggiungeranno il sole, fra cinque ore Plutone, fra due milioni di anni la galassia di Andromeda. È come se la nostra azione fosse salvata (“Salva con nome”, si intitola l’ultimo libro di una grande poetessa, Antonella Anedda), custodita a prescindere; come se avessimo una responsabilità profondissima di ciò che facciamo: perché la luce parte e lei no, non può tornare indietro.
L’eco di questa immagine, ripresa sia nel testo sia negli elementi scenici, rimane nella mente del pubblico per il resto dello spettacolo. Ecco, con una mossa sola e semplice, partendo dall’osservazione fisica e non da voluttuose parabole linguistico-filosofiche, Kentridge fa un balzo oltre le paludi di tanti dibattiti inutili e comodi su senso e non senso: e lo fa proprio impugnando l’idea di responsabilità.

Purtroppo è impossibile raccontare con i particolari che meriterebbe la qualità del testo. L’autore (e Peter Galison, storico della scienza, curatore della drammaturgia, dai cui dialoghi con Kentridge è nata l’idea di “Refuse the hour”) riesce a dosarne la densità spezzando il ritmo con gli stacchi ironici. Ad esempio, parlando della possibile inversione della direzione del tempo, la cui univocità è tramontata con la relatività di Einstein, Kentridge comincia un duetto con la straordinaria danzatrice-coreografa Dada Masilo: come due pendoli, si avvicinano e poi si allontanano, camminando all’indietro; entrambi invertono il movimento d’andata, la Masilo fisicamente, Kentridge oralmente, ripetendo al contrario la frase detta nell’atto di avvicinarsi.

Si alternano al testo, e ne costituiscono una sorta di correlativo oggettivo, gli interventi degli altri performer, fra cui spiccano la danza della già citata Dada Masilo e il duo delle cantanti, di cui una è un pulito e classico soprano, mentre la voce dell’altra è diffratta, segmentata, proprio come un segnale dallo spazio, deviato e interrotto da qualche intereferenza: due poli, Apollo e Dioniso, Ordine e Caos, tanto a sottolineare ancora le ambizioni integrali di questo lavoro.

E poi l’uso dell’orchestrina in scena, così esposto e allo stesso tempo minuto, delicato, che fa tornare in mente il bel lavoro che Moni Ovadia fece, qualche anno fa, con le “Storie del Signor Keuner” di Brecht. Il direttore, composto sulla sua sedia laterale, dirige l’orchestra e le cantanti muovendo le braccia per minimi archi, e questa sorta di ricercato pudore non può che contrastare – come in certi bambini vestiti da mamme istrioniche – con il suo abito, una vistosa camicia arancione.

“Refuse the hour”, dunque, non sarebbe così potente senza la componente musicale. D’altronde la musica ha molto a che fare col tema: esiste proprio in quanto dimensione ciclica e autoregolata, dove l’uomo può, con le regole del pentagramma, opporsi all’incontrollabilità del tempo. La musica «è una macchina per sopprimere il tempo», diceva un filosofo e antropologo come Lévi-Strauss. E ancora a proposito di Brecht: anche la struttura a capitoli, la drammaturgia a quadri, ha ovviamente molto del fido Bertolt.

E non abbiamo ancora detto nulla del piccolo capolavoro della scenografia: riempiono il palco macchinari di legno leonardeschi, sorta di leve e piccoli argani, costruiti con oggetti comuni, a mimare meraviglie meccaniche senza scopo, arte celibe come quella di Duchamp.
Sullo sfondo la video-arte di Kentridge, con i disegni che assumono a volte la forma dei frattali e si alternano all’immagine dell’artista stesso. E poi il metallo, quasi lunare, di alcuni coni che hanno una centralità scenica importante: a tratti sono mossi all’unisono da uno dei macchinari, come quelle grandi parabole, rese celebri da qualche film, che negli altopiani americani cercano voci dallo spazio (una trovata simile l’ha avuta di recente anche il Teatro Valdoca per Cage Parade); poi i coni servono a coprire le braccia e una gamba della Masilo durante una delle sue danze, sembrano impedirne i movimenti (la fatalità contro Perseo) ma allo stesso tempo riflettono forte la luce del proscenio, ricordandoci ancora dell’informazione che viaggia lontano nello spazio, della responsabilità dell’arte e di ogni azione.

“Refuse the hour” è un esempio magistrale di come il sapere scientifico (ma dovremmo soltanto dire, una volta per tutte, e alla faccia di troppi e stolidi pregiudizi: sapere contemporaneo) possa essere molto più, nel mondo creativo degli artisti, di una roccia poco invitante e piena di calcagni, da affrontare con impavide scalate solo se si ha voglia di qualche tirata anticlericale o di qualche pasoliniano ma ritardatario anatema contro il tecno capitalismo.
No, per qualcuno (di solito un “qualcuno” notevole: Queneau, Calvino, Gadda fra i grandi della letteratura; Santasangre, Muta Imago fra i più notevoli dell’attualità teatrale) la roccia è erosa dalle ventate della fantasia, si sbriciola in sabbia, diventa farina dell’immaginario poetico.

Kentridge ha la dote e il genio di raccontare al pubblico il suo rapporto con il tempo, fra ironie dubbi speranze, costruendo castelli, anzi arcate cosmiche, di sabbia. Ma stupisce soprattutto come la complessità dei rimandi lasci il testo asciutto, vivo di un’ironia positiva, meravigliata: la gioia di camminare cantare pensare per mettere in rete gli elementi, trovare un senso; scoprire le relazioni e dare un nome alle cose era la prima, per Walter Benjamin, delle attività mistiche.

E così viene voglia per davvero di abbandonarsi alla bellezza della scienza e alle immagini inedite che ci suggerisce. Di calarsi fino in fondo in quel «Verità è bellezza, bellezza è verità». Essere come i neutrini: particelle prive di massa che attraversano pianeti, stelle e spazi interstellari (non i tunnel sotterranei fra il Cern e il Gran Sasso!) senza freni, superando grazie alla loro stessa, irrisolta leggerezza, quegli ostacoli di fronte cui la luce stessa deve arrendersi.

Attraversiamo intatti, allora, la nube delle categorie; può soltanto sfiorarci il dubbio che Kentridge abbia insistito troppo su certi momenti di danza e canto, sfruttando appieno le qualità spettacolari dei suoi collaboratori, ma dilatando la coesione della drammaturgia.

Qualsiasi cosa sia questo “Refuse the hour”, è un capolavoro. Un termine che bisognerebbe ricacciarsi in bocca mille volte prima di usarlo davvero. Il fatto però è questo: torno a casa e ho l’anima, o lo spirito, o la mente, o come diamine vogliamo chiamarla, che sorride; sono riempito, banalmente, dalla consapevolezza di quanto l’universo sia un’avventura interessante, e di quanta bellezza possa esserci nel conoscerlo. Ho la testa piena dei pensieri, imparati chissà quando, di poeti, musicisti, artisti, scienziati di cui non ho mai sentito la voce, pensieri verticali che s’inseguono e si toccano e m’insegnano qualcosa, risvegliati dalla memoria grazie al lavoro di Kentridge. Ho assistito a uno dei finali più belli in vita mia (la chiusura sui buchi neri: la speranza che l’informazione si salvi anche quando la materia si scioglie, quando la morte arriva; un gomitolo con la nostra vita dentro, che magari qualcuno un giorno scioglierà). E che cosa, infine, si dovrebbe chiedere di più ad un’opera d’arte?

REFUSE THE HOUR
ideazione, testo e libretto: William Kentridge
musica: Philip Miller
coreografia: Dada Masilo
ideazione e video editing: Catherine Meyburgh
drammaturgia: Peter Galison
stage design: Sabine Theunissen
movement direction: Luc de Wit
costumi:
 Greta Goiris
machine design: Christoff Wolmarans, Louis Olivier, Jonas Lundquist
luci: Urs Schoenebaum luci

direzione musicale e orchestrazione: Adam Howard
performers:
William Kentridge, Dada Masilo danzatrice
Donatienne Michel-Dansac soprano, Ann Masina vocalist, Joanna Dudley vocalist Bahm Ntabeni attore e cantante, Thato Motlhaolwa attore, Adam Howard direttore musicale, tromba e flicorno, Philip Miller harmonium, Tlale Makhene percussioni,Waldo Alexander violino, Dan Selsick trombone,
Vincenzo Pasquariello pianoforte, Thobeka Thukane tuba
produzione:
Caroline Naphegyi, Olivia Sautereau
coordinamento: John Carroll
produzione tecnica: Charles Picard
assistente tecnico: Gavan Eckhart
ingegnere del suono: John Torres
assistente al disegno luci: Kim Gunning
video manipulator and operatore luci: Boris Theunissen
assistant video manipulator: Snezana Marovic
co-prodotto da:
Holland Festival, Festival d’Avignon, Romaeuropa Festival, Teatro di Roma, Onassis Cultural Center
Con il supporto di
from Marian Goodman Gallery (New York and Paris), Lia Rumma Gallery (Naples and Milan) the Goodman Gallery (Johannesburg e Cape Town) and Goethe Institut (South Africa)
durata: 1 h 30′
applausi del pubblico: 7′

Visto a Roma,  Teatro Argentina, il 15 novembre 2012


 

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