Mum & Gypsy: la generazione zero nipponica conquista Fabbrica Europa

Dots
Dots, lines and the cube
Dots, lines and the cube (photo: Koichi Iida)
Siamo in primavera, la stagione degli incontri e degli addii. Questo il tempo di “Dots, lines and the cube” di Mum & Gypsy, la periferia degli eventi, dove tutto si confonde e sembra allontanarsi sempre più dall’orizzonte del presente. Dove una storia somiglia a un punto, ormai indistinguibile e fermo, quasi inghiottito da tutta la vita che gli è passata accanto.

Takahiro Fujita, giovane drammaturgo e regista della “zero generation” nipponica (artisti venuti alla ribalta dopo il 2000), arriva alla XX edizione di Fabbrica Europa – che prosegue a Firenze fino al 19 giugno – con una storia lunga una decina d’anni che si dipana in direzione del presente, pur appesa com’è tra due estremi cronologici di diversa risonanza: due primavere di un passato molto prossimo. Da una parte infatti c’è il 2001, anno del ritrovamento del cadavere di una bambina di tre anni nei pressi del fiume di una piccola città giapponese, dall’altra quel 2011 in cui un terremoto e un successivo tsunami colpirono la regione di Tōhoku, situata nella parte settentrionale del paese affacciata sul Pacifico.

Questi fatti di cronaca emergono però da percorsi intimi e personali – entrambi figli dei ricordi e delle loro lacune – e si confondono e intersecano sulla scena su vari piani, soprattutto tramite l’uso di quei ‘refrain’, imposti sia ai corpi che alle battute degli interpreti, che costituiscono la cifra distintiva di Fujita. Ritornelli di ritmo, ritorni su posizioni e ripetizioni di frammenti di discorso che si depositano via via per guardarsi poi reciprocamente sulla scena, giocando anche con la memoria del pubblico, alla pari di singole cellule di un tessuto connettivo che alla fine ci appare come trama non compatta di frammenti drammaturgici.

Tante le storie e altrettanti i punti di vista da cui emerge il loro ricordo, tutti però tangenti a due storie esterne (l’omicidio e il terremoto), relazioni spaziali che svolgono le coincidenze in rapporti drammaturgici via via sempre più definiti.
I coprotagonisti sono sei tra uomini e donne che nel 2011 ricordano avvenimenti ricorsi dieci anni prima: la fuga di casa di una di loro appena prima del diploma, con la sua tenda piantata sulle sponde del medesimo lago che solo poco tempo prima fu teatro dell’infanticidio; i giorni che invece precedono la partenza per il college di un’altra delle ragazze e quelli del suo ritorno in coincidenza del terremoto, con le reazioni  presenti e passate ad entrambe le scelte all’interno del gruppo di coetanei. Tessuti metaforici che insieme agli oggetti scenici (una scacchiera, una pallina da tennis, una tenda, un piccolo cervo di plastica, una scala) vengono invasi anche da un esterno incoerente che però funziona bene a livello aneddotico – l’11 settembre viene trattato in modalità open source ma a posteriori, tramite una serie di “mi ricordo di aver visto alla tv il primo aereo…” –  ma anche pervasi da un interno profondamente lirico: un inno alla foresta, ai suoi abitanti e all’incomprensibile scelta di una delle ragazze di isolarsi (anche se solo momentaneamente) dalla società.

Personaggi e memorie conferiscono così allo spettacolo un duplice sguardo periferico, dato sia dallo scorrere del tempo, che dai diversi punti di vista dei sei narratori omodiegetici, le cui storie richiedono parimenti un proprio grado di immedesimazione ma che finiscono per collegarsi l’un l’altra alla pari di altrettanti singoli punti, seguendo linee e andamenti zigzaganti e spesso definitivamente empatici.

L’empatia infatti emerge momentanea ma intensa, traballa alla pari di una torre nel gioco del Jenga, alla quale si sottraggano pezzi di passato per tentare di trasportarli in cima al presente. Un presente che appare ora come attesa, un’aspettativa non tanto verso il futuro ma in direzione del passato, sulle orme di un tempo già trascorso per ricostruire e liberare il punto da cui tutto ha avuto inizio. Sempre che quel punto sia ancora in grado di illuminare la strada di oggi e di ricostruirne le fila, quel “mondo e gli altri nel cubo che risplende”.

In “Dots, lines and the cube” oltre alle scene si ripetono anche i sentimenti, graduando lo svolgimento di  ogni singolo nodo e intreccio personale. A questo gioco, dove assi temporali e spaziali s’intersecano modulandosi su diversi piani, ben collaborano anche le trame musicali del jazzista Yoshio Otani, che dall’inizio alla fine creano una sorta di tappeto sonoro per le azioni e i vagabondaggi insistiti dei personaggi, contribuendo anche nella scansione e nel ritmo del fraseggio drammatico.

Dots, lines and the cube. A world and the others in the cube that shines
testo e regia: Takahiro Fujita
interpreti: Aya Ogiwara, Shintaro Onoshima, Ayumi Narita, Satoshi Hasatani, Jitsuko Mesuda, Satoko Yoshida
collaborazione musicale: Yoshio Otani
disegno luci: Kaori Minami
suono: Rie Tsunoda
direzione di scena: Susumu Kumaki
tour manager: Yuko Uematsu
traduzioni: Miwa Monden
organizzazione: Kana Hayashi
produzione: Mum & Gypsy
coproduzione: Steep Slope Studio
con il sostegno di The Saison Foundation
ringraziamenti a Yokohama Arts Platform Steep Slope Studio
con il patrocinio della Fondazione Italia Giappone
spettacolo in lingua originale, con sottotitoli in italiano e inglese
foto: Koichi Iida
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 3’ 20’’

Visto a Firenze, Stazione Leopolda, il 10 maggio 2013


 

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