La vertigine biografico culturale di Nora Picetti

Nora Picetti in Rosa dalla paura all'America (photo: caffeletterario.org)
Nora Picetti in Rosa dalla paura all'America (photo: caffeletterario.org)
Nora Picetti in Rosa dalla paura all’America (photo: caffeletterario.org)
«Ecco che cosa ho imparato ad emigrare in America, a non avere paura».
Le ultime parole pronunciate da Rosa mi restano in testa, anche a distanza di giorni…

La rappresentazione è prevista per le 22 al Caffé Letterario di Lecce, dove una lavagnetta nera mi dà il benvenuto: “In serate come queste s’incontrano solo pazzi ed eroi”, e in effetti saremo pochi ma attenti.

Il minuscolo palchetto riesce a contenere (c’è da non crederci) una sequenza di eventi e accadimenti, voci e memorie, tutto nella multivoca presenza di Nora Picetti, aiutata unicamente da una sedia e due cappelli.

L’attrice, che con l’apprezzamento dell’anteprima di “Rosa dalla paura all’America” ha ricevuto una chiamata da Teatridithalia, è milanese, come me, ed è cresciuta, come me, in un paese dell’hinterland, uno di quelli dai nomi strani e quasi uguali, con quell’apertura tutta lombarda sul finale.

Ed è così che quando inizia a parlare, o meglio, a dare voce a Rosa Cassettari, anche lei nata e cresciuta 120 anni fa negli stessi luoghi, un po’ mi commuovo. E non è proprio la nostalgia, quanto piuttosto l’identificazione: nell’inflessione del parlato mi tornano alla mente parole pronunciate altrove, e nella distanza del qui e ora mi accendo del sentimento di chi è partito per andare via.

E tanto più mi identifico quanto più Nora entra dentro la vicenda di Rosa, allorché definisce anche me, nel duplice registro di una come lei, quella che recita, che però è anche come l’altra, quella che viene interpretata: io, emigrante di un’avventura al contrario, a trovare la mia ‘merica nel Salento.
In un decentramento della prospettiva, lontano dal consueto, attendo al familiare, per un serendipico incontro, e confermo al mio pensiero che la “cura geografica”, talvolta, edifica davvero il cambiamento.

Eccomi dunque ad ascoltare Nora che racconta la vera storia di Rosa: di quando è nata, nel 1866, e l’hanno portata all’Ospedale di Santa Caterina, per affidarla alle cure della Ruota. E ancora, della vita al paese, ormai figlia di due contadini, nonostante le infondate pretese di una sartina di scena che si finge attrice.
La ascolto Nora/Rosa, mentre sta seduta con le braccia salde sulle ginocchia, a dirci del lavoro di stalla e, neanche donna, di quello alla filanda, fra Cuggiono e Cannobio, dalle suore cappellone.
E ancora, mentre Nora transita da uno all’altro ruolo ed entra ed esce da destini diversi, vedo Rosa che attraversa tutte le tonalità dell’anima: dalla gioia, con l’amica sempliciotta e la musica di una festa di campagna e le cicale, alla delusione, il primo amore per quel poco ardito Remo che non riuscirà a portarsela via, pena l’obbedienza nei confronti di mamma Lena, alla disperazione, il matrimonio con Santino, più vecchio di lei, violento e villano, che la maltratta e l’ingravida, prima di partire per le miniere di ferro di Iron Mountain nel Missouri.
E poi la solitudine: il distacco forzato dal suo bambino e la navigazione, durissima, da Le Havre fino alla costa americana. La vita nel campo minerario e la fede nella Madonna quando le toccano le botte, ma anche l’incontro con Gionin, un toscano di buon cuore con il quale intravede la pace, e il rientro in Italia per ricongiungersi al figlio e la fiera decisione di ritornare in America, lontano dai nauseanti propositi dell’avido marito.

Fino a qui la paura, oltre questo punto l’identità.
La vita vera, una vita tutta sua, con un lavoro duro ma autentico, al Chicago Commons, nella casa di accoglienza del reverendo Taylor. È qui, dove Rosa fa la cuoca e la domestica, che avviene l’incontro, nel 1918, con Marie Halls Ets, un’assistente sociale nota anche come illustratrice, che ha da poco perso il marito e che Rosa, finalmente allegra, consola e rasserena raccontando, lei che ormai parla anche l’inglese, la storia della sua vita tra favole e memorie.
Ecco dunque la genesi del testo originale da cui nasce l’idea per questa resa teatrale, “Rosa the Life of an Italian Immigrant”, da un manoscritto che viene meticolosamente redatto per decenni, fino a quando viene consegnato nelle mani di Rudi Vecoli, fondatore del Centro Studi di Storia dell’Immigrazione di Minneapolis e dato alle stampe, modificando i nomi originali e con qualche riduzione, nel 1970.
Mentre ascolto e riascolto il “Walzer di Rosa” composto da Roberto Bisatti continuo a rivivere la narrazione e mi convinco che un ‘teatro autobiografico’, per dir così, non sia soltanto una bella idea, ma anche un progetto tutto da pensare.

ROSA DALLA PAURA ALL’AMERICA
una storia vera di migrazione, narrazione e libertà
di e con Nora Picetti

Visto a Lecce, Caffé Letterario, l’8 febbraio 2012 nell’ambito di “Quante storie in giro” a cura di Nasca Teatri di Terra

0 replies on “La vertigine biografico culturale di Nora Picetti”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *