Teatro ragazzi: il best of 20/21. Che il Covid sia servito?

A+A storia di una prima volta (photo: Massimo Bertoni)
A+A storia di una prima volta (photo: Massimo Bertoni)

Nonostante la scarsa programmazione di spettacoli dell’anno scorso, dovuta alla pandemia, e all’annullamento di numerosi festival, torna – insieme al nostro Last Seen 2021 (ultimi due giorni di voto prima di decretare il vincitore!) – anche il “best of” dell’inizio dell’anno, dedicato ai migliori spettacoli di teatro ragazzi.
Questo “best of” tratterà però due stagioni: 19/20 e 20/21, e sarà diviso in due puntate, data – lo diciamo subito – l’alta qualità riscontrata nelle creazioni dopo la lunga pausa imposta dal Covid: che non sia stata, questa sosta forzata e sofferta, l’occasione per gli artisti di affilare le metodologie utilizzate e di lavorare più in profondità sulle nuove produzioni?

Diversi (finalmente!) gli spettacoli importanti dedicati agli adolescenti, incentrati fra l’altro su una problematica fino ad ora pochissimo frequentata dal teatro ragazzi: la nascita dei sentimenti. E’ questo il tema portante di “A+A storia di una prima volta” di Giuliano Scarpinato, prodotto dal CSS di Udine, che racconta in modo ironico e coinvolgente di come nasce l’amore e come si sviluppa tra gli adolescenti ai tempi dei social.
A. e A., interpretati con credibilità da Emanuele Del Castillo e Beatrice Casiroli, sono una ragazza e un ragazzo di 15 e 17 anni, pieni di sogni, incertezze, dubbi e aspirazioni, come lo sono tutti i ragazzi della loro età, e non hanno ancora fatto l’amore. La loro storia si interseca con i video e gli audio dei tanti A e A che ci circondano, e che esprimono in diretta tutte le loro opinioni sul proprio universo delle emozioni.
A. e A., come i loro coetanei, non sanno come ci si deve comportare, e di certo non aiutano né le paure della scuola e della famiglia, né il pressappochismo dei social e il “sentito dire” degli amici, che li stimolano a fare in fretta. E poi, che differenza esiste tra amore e sesso?
Dei due ragazzi seguiamo i sentimenti, i dubbi, le finte certezze: finalmente l’incontro avverrà, con tutte le aspettative e le titubanze del caso. L’amore è consumato, tradotto in scena con una danza delicata e dolcemente appassionata. Tutto è espresso da Scarpinato, che ha concepito la drammaturgia con Gioia Salvatori, in toni da commedia, con leggerezza, senza alcuna ombra di volgarità.
Lo spettacolo andrà in scena il 13 febbraio al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma.

Dopo la commedia di Scarpinato, ecco rappresentata l’altra faccia dell’amore, quella forse più nascosta, ma in qualche modo sempre latente: il suo rapporto con il dolore dell’abbandono. Lo si può raccontare agli adolescenti, e anche se ciò avviene tra due adolescenti dello stesso sesso?
Certo, si può e si deve, come è avvenuto in modo profondo attraverso Shakesperare in “Venere/Adone” di Danilo Giuva, scritto con Annalisa Calice per la Compagnia di Licia Lanera.
Nel procedere dei sentimenti, in parallelo con la storia scespiriana di Venere e Adone, e quella personale dell’attore foggiano verso un coetaneo, ogni emozione viene scandagliata: il primo palpito d’amore nel vederlo la prima volta, tutti gli escamotage utilizzati per frequentarlo, la ricerca di segni inequivocabili per un rapporto, il primo fuggevole bacio, reso ancora difficile dal fatto di essere dello stesso sesso, gli sguardi, le speranze e le ritrosie. E poi l’abbandono, con quel dolore che ti ferisce dentro, narrato con grande adesione.

Eccoci poi a “Storia di un No” di e con Annalisa Arione e Dario de Falco, che nel loro stile ormai riconoscibile, senza scenografie di sorta, che si affida solo alla loro capacità di creare spazi di forte immaginazione in cui si muovono personaggi ricchi di senso e di storie, ci narrano dell’affacciarsi all’amore della quattordicenne Martina. La seguiamo a scuola, ne conosciamo le amiche, i compagni del primo e dell’ultimo banco, i desideri, i primi ammiccamenti con l’altro sesso, finché… entra in scena Alessandro.
Annalisa Arione e Dario de Falco anche qua seguono parallelamente e con puntiglio l’avvicinamento dei due ragazzi, tra desiderio e tentennamenti, sino al primo bacio. Anche per mezzo di un papà amorevolmente presente, i giovani spettatori si rispecchieranno in Martina e Alessandro, diventando consapevoli da una parte che scegliere il proprio compagno, anche se ci attrae in modo forsennato, anche se lui ci incoraggia in ogni modo, è una cosa da ben ponderare e, dall’altra, che se proprio vogliamo bene al nostro amato, dobbiamo anche saperci adattare a lui e alle sue esigenze, scambievolmente.

Un altro tema importante, il rapporto degli adolescenti con i propri genitori, è invece analizzato in modo profondo da “Tre” della compagnia Scena Madre.
Al centro dello spettacolo c’è l’adolescente Francesco con i suoi iperprotettivi genitori, che per di più dicono sempre cose diverse riguardo le sue necessità, anzi, litigano sovente in modo concitato, lasciando inascoltati i suoi desideri. Francesco intuisce comunque che tutto ciò avviene per troppo amore: l’importante è dunque saperlo dosare con intelligenza, l’amore, cercando di condividere insieme bisogni ed esperienze.
I nostri tre – padre, madre e figlio, Simone Benelli, Giulia Mattola e l’efficacissimo, nella sua naturalezza, Francesco Fontana – si muovono sul palcoscenico utilizzando pochissimi oggetti, e delimitando gli spazi attraverso 15 sedie che, di volta in volta, danno significato ai loro sentimenti.
“Tre”, su regia e drammaturgia di Marta Abate e Michelangelo Frola, alla fine si configura come un’eccellente radiografia, spesso intrisa di ironico sarcasmo, della famiglia, in cui lo spettatore adolescente può facilmente rispecchiarsi, riconoscendo molti dei meccanismi che condizionano le scelte della sua giovane età e in cui anche i genitori percepiscono perfettamente tutta la grande responsabilità del loro difficile compito.

Tre di Scena Madre (photo: Massimo Bertoni)
Tre di Scena Madre (photo: Massimo Bertoni)

Ma ai ragazzi e agli adolescenti è anche doveroso parlare della realtà crudele che ci sta intorno, anche se lontana da noi. Questo coraggiosamente fa “Continua a camminare” del Teatro del Buratto, su testo di Gabriele Clima e Renata Coluccini che ne firma la regia, creazione che spia l’adolescenza nei meandri della guerra attraverso le esistenze parallele di Fatma e Salim, intrappolati in una Siria devastata dalla guerra. Fatma e Salim sono due ragazzi che dovrebbero avere tutti i sogni della loro età, ma non è così: Fatma cammina nel deserto verso un campo militare per compiere suo malgrado un’impresa distruttiva più grande di lei; Salim cammina invece con suo padre verso una linea che lo dovrebbe portare alla felicità, con in mente sempre la memoria di un fratello morto troppo presto, pieno di speranze e d’amore per la cultura.
Lo spettacolo, espresso con delicatezza e acuto senso di pietà per i protagonisti, segue separatamente (perché nonostante tutto il destino li porterà ad essere soli con sé stessi in un mondo sempre più respingente) la storia dei due ragazzi, che Stefano Panzeri e Simona Gambaro consegnano in modo esemplare al pubblico di adolescenti, su un bellissimo progetto musicale creato per l’occasione da Luca De Marinis e Raffaele Serra.

Tra le eccellenze di queste due stagioni ci sono anche tre spettacoli che parlano di scuola.
Tib Teatro di Belluno, su drammaturgia di Daniela Nicosia, in “Alberto Manzi: storia di un maestro”, ripercorre la biografia del Maestro d’Italia, famoso per la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, che portò negli anni ’60 del secolo scorso, per la prima volta in tv, l’insegnamento scolastico ai milioni di italiani che non sapevano né leggere né scrivere.
Lo seguiamo sin dal primo dopoguerra, nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma, fino agli anni ‘70 in Sud America con gli indios. E la creazione parte proprio dal carcere, dove la sua esperienza di insegnante è nata, connaturandosi con il continuo confronto tra il maestro, interpretato da Marco Continanza, e il suo allievo Mollica (Massimiliano Di Corato), un piccolo pregiudicato, ladro soprattutto per fame. Attraverso il loro continuo rapporto e il cambiamento che man mano avvertiamo in Mollica veniamo a conoscere il metodo di insegnamento di Manzi, basato soprattutto sull’educare al piacere del pensiero, al trasmetterlo attraverso l’interrogarsi sulle cose.
La creazione invita così a riflettere su come insegnare sia una vera e propria missione, in cui il maestro resta una figura fondamentale della società democratica, che deve tendere, come insegna la nostra Costituzione, ad offrire a ognuno gli stessi diritti e possibilità.

Splendido è anche “Esterina Centovestiti”, la nuova narrazione di Daria Paoletta di Burambó che ci racconta l’infanzia scolastica di una bambina, Lucia Ghibelli. Attraverso i suoi occhi conosciamo, in modo cosi vivido da rendercele presenti, tutte le esistenze che la circondano. Tra di loro ecco Esterina Gagliardo, che si esprime in dialetto e che con quella sua voce così sgradevole gridava, tra lo scherno di tutti, di avere nel suo armadio cento vestiti: ed è per quello che la chiamavano Esterina Centovestiti. E’ lei la vera protagonista della storia.
Servendosi solo di tre sedie e di una cornice con le luci (scena e regia di Enrico Messina) l’artista pugliese ci regala un’ora di spettacolo pervasa da profumo d’infanzia di poetica sostanza, per dirci soprattutto che quello che appare a volte non è come davvero è, e nel contempo che conviene gustare sempre la vita per ciò che ogni momento ci regala, senza pregiudizi.

Esterina Centovestiti (photo: Massimo Bertoni)
Esterina Centovestiti (photo: Massimo Bertoni)

La classe è anche protagonista, in modo assolutamente diverso, in qualche modo più adulto, in “La nostra maestra è un troll”, una nuova coproduzione di Accademia Perduta e Fontemaggiore, tratta da “Our teacher’s a Troll”, dello scrittore inglese Dennis Kelly, tradotta da Monica Nappo.
Al centro della vicenda ci sono i gemelli Alice e Teo, che combinano guai a più non posso, arrivando perfino a far licenziare la loro insegnante. Purtroppo per loro arriva a sostituirla un vero e proprio Troll, che da subito istituisce una specie di lager in cui terrorizza allievi e professori, ma che alla fine dovrà venire a patti con i ragazzi: non spaventerà più i bambini, ma loro cercheranno di fare meno monellerie, diventando più responsabili.
Pur essendo una creazione sempre innervata da una vena surreale in ogni sua piega, la regia di Sandro Mabellini riesce, tra narrazione e dialogo, attraverso un ritmo sempre serrato, a farci gustare il sentire bambino, che guarda con i suoi occhi il mondo che ha davanti, aiutato anche dalla confacente interpretazione di Liliana Benini ed Edoardo Chiabolotti.

Eccoci poi a una bellissima e sontuosa riduzione contemporanea di una fiaba, “Barbablù e Rossana”. Qui l’artista lombarda Monica Mattioli, in una bellissima e studiata cornice scenografica realizzata da Elena Colombo, impersona i due personaggi del titolo, aiutata da un confacente tappeto sonoro e da oggetti e costumi profondamente significanti, riconsegnandoci tutti i passaggi emotivi della timida Rossana, che si lascia coinvolgere da una passione insana, ma per lei assolutamente vera e piena di speranza, verso un domani che forse alla fine riuscirà ad affrontare in modo più consapevole.

Terminiamo questa prima analisi del meglio del teatro ragazzi italiano delle passate due stagioni con due differenti e ottime narrazioni: “Con viva voce, la storia di Ivan e il lupo grigio” e “Corpi al vento”.

In “Con viva voce, la storia di Ivan e il lupo grigio” il bolognese Bruno Cappagli si allea con il torinese Guido Castiglia per sperimentarsi, solo in scena, con un’antica fiaba russa.
E’ una bellissima storia che parla di viaggi avventurosi, di consigli insabbiati, di uccelli di fuoco e mele d’oro, di meravigliose trasformazioni e di acque prodigiose, che Bruno Cappagli racconta con giusto e capace piglio narrativo, restituendocene tutti i passaggi in modo convincente, utilizzando, oltre a una serie di matrioske, pochissimi oggetti.
Ma lo spettacolo, che non per niente ha come titolo “Con viva voce”, non è solo una storia narrata: la creazione infatti diventa anche relazione affettiva, trasformandosi in un dono prezioso, tramandata, come è stata, attraverso varie generazioni perchè narrata a Bruno dal nonno di suo nonno, e così via…
La narrazione, punteggiata da una colonna musicale sempre discreta e al contempo significante, si fa oltremodo preziosa, in un interscambio emotivo continuo tra il protagonista della storia, il narratore e l’ascoltatore, che vivono delle stesse emozioni, sottolineate sempre in modo poetico e mai didascalico.

Corpi al vento (photo: Massimo Bertoni)
Corpi al vento (photo: Massimo Bertoni)

Infine Ilaria Gelmi e Antonella Ruggiero, artiste provenienti da regioni diverse, qui arricchite da un efficace e visibilissimo lavoro sul movimento di Elisa Cuppini, sotto gli occhi del maestro Roberto Anglisani (che ultimamente ci ha regalato anche un bellissimo omaggio alla figura del Minotauro), in “Corpi al vento” narrano in modo efficace, foriero di intense suggestioni, le vicende di cinque donne cretesi: Fedra, Pasifae, Europa, Arianna e Antiope.
Le due attrici, vestite di turchese, come le onde di quel mare in cui si specchiano le storie che raccontano, si muovono sul palco avvicendandosi nel narrare, dialogando attraverso poche parole, creando rumori e atmosfere, disegnando spazi con i loro corpi che all’occorrenza si avvicinano e si separano.
Sono donne fragili, come la creta, quelle riverberate dallo spettacolo, come le tante donne che ancora oggi sono tradite, violentate, uccise da uomini che credono di amarle, ma che in verità amano di gran lunga più sé stessi.

— fine prima parte —

  [Articolo realizzato con la preziosa collaborazione di Rossella Marchi].

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