Se quel tram del desiderio incontra Antonio Latella

Marinoni e Marchioni in Un Tram (photo: Brunella Giolivo)
Marinoni e Marchioni in Un Tram (photo: Brunella Giolivo)
Laura Marinoni e Vinicio Marchioni in Un Tram (photo: Brunella Giolivo)

Luci forti, accecanti, ruvidi frastuoni e un tessuto di vizi e menzogne nel decadente profondo Sud americano.
Dimenticate gli orpelli e le smancerie dell’illustre opera cinematografica di Elia Kazan.
Antonio Latella scaglia sul palcoscenico la violenza repressa, la follia, l’eros animalesco che cova nel testo di Tennessee Williams.

Quello che diventerà un classico del teatro novecentesco, “Un tram che si chiama desiderio”, debutta a Broadway nel 1947 con la regia di Elia Kazan e Marlon Brando nel ruolo del protagonista; ma nella rilettura di Latella si denuda in tutta la sua intima introspezione, in tutti i conflitti feroci tra il mondo aristocratico e decadente di Blanche DuBois e quello proletario riflesso nel sogno americano di Stanley Kowalsky.

Stanley (Vinicio Marchioni) e Stella (Elisabetta Valgoi) sono una giovane coppia di New Orleans la cui relazione viene turbata dall’arrivo della sorella di Stella, Blanche (Laura Marinoni), donna dalla personalità intricata e dalle oscure vicende alle spalle, che sconvolgerà l’equilibrio dei due e farà precipitare la stessa Blanche nel dramma dell’infermità mentale.

Williams ambientava questi contrasti nella società americana in pieno fermento all’indomani della seconda guerra mondiale; Latella circoscrive l’azione nelle forme e nei colori di una scena scheletrizzata da mobili domestici sventrati, strutture esiliate dalla realtà oggettiva e dolorosa, dove vengono incastonati come protesi meccaniche fari, microfoni e amplificatori. Una sorta di set dal richiamo cinematografico, ma con ogni elemento scenico privato di uso funzionale per divenire ambiente psichico, per non subire il dramma ma contribuire alla sua diffusione. E l’impraticabilità della scenografia viene riconvertita dagli stessi interpreti, che si servono materialmente di riflettori e microfoni per generare memorie di se stessi.

Latella ha capito bene che solo destrutturando la canonicità di certe drammaturgie è possibile ridare impatto al loro vigore primario, pur usando espedienti ormai tipici del repertorio teatrale. Una destrutturazione che investe il testo stesso della pièce che, seppur ripreso praticamente alla lettera, viene rovesciato e reindirizzato dalla fine, spostando lo sguardo all’interno della psiche di Blanche, aprendo allo spettatore uno squarcio sul suo universo, ma anche facendo scaturire l’intera vicenda dalla mente della protagonista. Un chiaro rifiuto di realismi barocchi, che Williams aveva parafrasato in astrattismi simbolici, e Latella riscrive evitando di snaturare la crudeltà intrinseca della sua poetica. Una regia minuziosa insomma, che affronta un’opera sedimentata da oltre sessant’anni nel nostro immaginario, riuscendo così a prendere le distanze dal sentimentalismo senza tradire la sensibilità dell’autore.

Determinante nella struttura scenica è la presenza di un narratore (Rosario Tedesco), che interpreta il ruolo del dottore, personaggio che nel testo compare solo alla fine, mentre qui sembra evocare la figura del coro greco, descrivendo le scene e i momenti che si susseguono nei tempi dilatati, dirigendo come un regista demiurgo i momenti cruciali e la scansione didascalica, imboccando battute e stati d’animo ai personaggi.

Ma anche se non è l’ingegnosa originalità a caratterizzare la messa in scena, a travolgerci è l’isterico disagio rumoroso che pervade lo spettacolo, in continue contrapposizioni tra luce e ombra che dipingono l’atmosfera delle torride estati della Louisiana di una tensione sinistra, nei disumani tentativi dei protagonisti di non soccombere alle angosce della solitudine.

Mitch (Giuseppe Lanino), l’amico fraterno di Stanley e improbabile spasimante di Blanche, e la vicina di casa Eunice (Annibale Pavone) definiscono un quadro di menzogne e distorsioni del reale, denso di ossessioni e disperate immagini archetipiche, dove non può esserci posto per la redenzione, nemmeno alla nascita del figlio dei giovani sposi, fatta brutalmente coincidere con la definitiva accondiscendenza di Blanche alle burbere lusinghe del rozzo Stanley. Definitiva sottomissione di una mente fragile, in cui rimbombano voci, martellano ritmi duri e sotterranei.

Latella scommette sull’incompiutezza del senso dell’esistenza e sull’accettazione del declino nel vivere quotidiano; e facendo lottare i suoi eroi contro atavici turbamenti, vince.
Fino all’11 marzo in scena al Teatro Argentina di Roma.

UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO
di Tennessee Williams
traduzione di Masolino D’Amico
regia: Antonio Latella
con: Laura Marinoni, Vinicio Marchioni, Elisabetta Valgoi, Giuseppe Lanino, Annibale Pavone, Rosario Tedesco
assistente alla regia: Brunella Giolivo
scene: Annelisa Zaccheria
costumi: Fabio Sonnino
luci: Robert John Resteghini
suono: Franco Visioli

durata: 2h 49′ (con intervallo)
applausi del pubblico: 2′ 35”

Visto a Parma, Teatro Due, il 26 febbraio 2012

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2 Comments

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  1. says: Ele

    A me non è parso essere un lavoro così interessante…interessante la scelta del narratore/regista sul palco, ma forse c’è stata un’eccessiva destrutturazione…a tratti interminabile…