Andando a riscoprire umanità. Le Prigionie (in)visibili di Samuel Beckett

Samuel Beckett
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Samuel Beckett – In mostra a Roma Le Prigionie (in)visibili
Andare a scoprire Samuel Beckett, e il suo essere profondamente umano e radicato nella nostra società. Andare a scovare quelle “Prigionie (in)visibili”, in cui è relegato, volente o nolente, consapevole o non, il mondo.
A rimarcare proprio quest’aspetto è il sottotitolo di una bella mostra, in corso fino al 2 febbraio alla Casa dei Teatri di Roma, nello storico Villino Corsini di Villa Pamphilij: “Il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo. Fotografie, installazioni scenografiche, voci dal presente”.

A cura di Yosuke Taki (regista teatrale, artista, scrittore), proprio alle sue parole, catturate all’incontro “Beckett, una deviazione italiana: memorie, idee, tributi” (di cui vi parleremo nei prossimi giorni), si può affidare il senso di questo evento da non sottovalutare: “Nel 1953 è avvenuta la prima rappresentazione di “Aspettando Godot”, e i primi che non sono rimasti affatto scettici vedendolo sono stati i detenuti in carcere. In Germania, nel 1953, lo hanno tradotto e messo in scena. Risultato: un grande successo. A San Quentin (San Francisco), nel 1957, in mezzo a 1400 detenuti, un uomo, condannato all’ergastolo, viene folgorato dalla visione di “Aspettando Godot”. Decide di fare l’attore. E’ Rick Cluchey, che ha iniziato a fare teatro in carcere, creando il San Quentin Drama Workshop. Dopo anni ha chiesto la grazia, ed è uscito… [Tanto che Klp lo incontrò nel 2008 a VolterraTeatro, ndr]. Questa affinità tra Beckett e il carcere continua ancora oggi. Non ha mai descritto un’effettiva vita di carcerati, ma di personaggi ingabbiati inconsapevolmente”.

“A partire da questo – prosegue il curatore – siamo poi andati a vedere cosa sia successo dopo la sua morte nel 1989, come i registi hanno trattato quelle sbarre invisibili che imprigionavano la nostra esistenza. Grazie a queste due constatazioni siamo andati a raccontare il rapporto di Beckett con l’oggi”.

Con la realtà, e la sua verità, verrebbe da dire, venendo a sapere che quell’opera intramontabile, summa del cosiddetto Teatro dell’Assurdo, qui sopra più volte citata, nacque proprio da una vicenda autobiografica dell’autore, che aveva vissuto nelle macerie della Francia del Sud, fuggendo dai nazisti insieme alla futura moglie Suzanne.
 
Ma poi, perchè lasciarsi ancora annoiare da definizioni così vetuste come quel Teatro dell’Assurdo? Il regista Carlo Quartucci, con l’attrice Carla Tatò ospite illustre dell’incontro, racconta come ai suoi tempi, quando aveva 20 anni e iniziava a fare e ripensare teatro all’università, lo definivano l’Assurdo del Teatro…

Compiendo i primi passi all’interno della mostra, e sbirciando impazienti di sapere cosa contengano, si possono trovare descritte su pannelli tutte quelle esperienze che sono venute dopo la morte di Beckett.
Spartiacque ideale tra un prima e un dopo è “Aspettando Godot a Sarajevo” di Susan Sontang, del 1993: “Volevo realizzare qualcosa con la gente di qui, qualcosa da fare e consumare qui […] si potrebbe dire che questa commedia sia stata scritta per Sarajevo”.
La Sontang non voleva fare più parte di quella comunità di intellettuali che fino ad allora osservavano distaccati, ma “partecipare all’attività e ai desideri che hanno gli abitanti per conservare la propria dignità”.

Ci si trova dunque di fronte a un nuovo approccio, a “un teatro capace di corrodersi e di interagire con la realtà storico-geografica, facendo così emergere le “prigionie invisibili” nascoste nell’opaco tessuto del nostro tempo.
Il mondo sta cambiando ed è la Storia stessa che ha richiamato Beckett in questo ruolo, quello di scriba della Storia”, si cattura dalle note di “Beckett dopo Beckett”. La perdita del senso della realtà, o meglio lo scollamento tra l’umanità e il mondo reale, è diventato un fenomeno diffuso a tutti i livelli della società, anche al di fuori della guerra.

E lo troviamo in mezzo ai disastri di New Orleans causati dall’uragano Katrina, in mezzo ai manifestanti di Occupy Wall Street. “Aspettando Godot” è arrivato addirittura appena fuori dalla zona d’evacuazione della centrale nucleare di Fukushima.
Alle 17 del 6 agosto 2011 il Kamome Machine è giunto da Tokyo sulla Statale no.6, a circa 20,5 Km da essa. Si legge “per trovare se stessi”. Davanti a un solo spettatore, senza tute anti-radioattività, come gli stessi abitanti del luogo.

E ancora in Giappone, ha camminato nei luoghi devastati dallo tsunami, per mano della compagnia New National Theatre di Shintaro Mori. Con la domanda contenuta nel testo: “Da dove vengono tutti questi cadaveri?”, che sembrava scritta solo per loro, tentando di trovare una convivenza possibile tra vivi e morti. Una condizione di limbo della “Lost Generation” giapponese che ha denunciato Makoto Sato grazie a “Endgame”: attraverso la disperazione di Hamm ha guardato quella dei giovani giapponesi di oggi, gli Hikikomori, che si autoescludono dal mondo rinchiudendosi in casa, arrivando a esplodere con rabbia e violenza la propria condizione di non-vita contro i propri familiari.

Si scopre così una consanguineità che non ti aspetti, o meglio semplicemente non sapevi, anche con l’Estremo Oriente per il nostro Beckett. Che già conoscevamo per il poetico “Barboni” di Pippo Delbono, e per la lancinante traduzione di Giancarlo Cauteruccio: con la Compagnia Krypton, e il fratello Fulvio, realizzò “U juocu sta’ finisciennu”, un “Finale di partita” in calabrese. “Volevo portarlo dentro di me, e doveva essere la mia lingua. Io non sono un attore, posso radicare la lingua teatrale attraverso lo strumento della mia lingua. O meglio quella di mio fratello” racconta Cauteruccio…
Ma per saperne di più, abbiate solo un articolo di pazienza…

Si può ora continuare a camminare, e si finisce in “Prigione”. Nell’ufficiale, prima stanza della mostra, filo spinato che si propaga dall’alto, tra un pannello e l’altro. Su di essi il primo incontro con Beckett in carcere, nel 1953, quello nella prigione di Lüttringhausen.
Si continua: con Rick Cluchey e il suo San Quintin Drama Workshop; con Gianfranco Pedullà, alla Casa Circondariale di Arezzo, con l’umorismo beckettiano; con le Officine Ouragan di Claudio Collovà, per insegnare a vedere ed essere “eredi” grazie al Laboratorio teatrale c/o il Centro di Giustizia Minorile Sicilia, Servizi Sociali per i Minorenni di Palermo; con Giorgia Palombi all’Istituto Penitenziario di Secondigliano: per incontrare un Beckett sconosciuto. Arrivando inevitabilmente ad Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza: per affrontare un silenzio straordinario.

Si può entrare ora in una nuova stanza, nella “Ricerca dell’astrazione”, tra i plastici modellini di “Aspettando Godot”, “Finale di Partita”, “Giorni Felici”.
Introducendosi nelle “Prigionie vocali”, ci investono, registrate, urla e voci disperate, che ci accompagnano a incontrare: il tavolo, con magnetofono e banana che spunta da un cassetto, de “L’ultimo nastro di Krapp”; “Di’ Joe” e il suo letto da detenuto della vita; una figura scura e con cappuccio in un angolo; un’enorme “Bocca”, che copre una parete, e più piccola, su di un monitor, corre a vomitarci il suo dolore.
Si passa al buio di “Prigionie di immagini televisive”, con delle figure colorate, incappucciate e ferme negli angoli della stanza: sono le stesse che prendono vita sullo schermo che è diventata una parete, dove va in ciclo continuo “Quad”.
Spostato il drappo nero, ecco di nuovo la prima stanza, e la luce di “Beckett dopo Beckett”.

In mezzo a tutte quelle esperienze dal mondo, su di uno specchio incastrato tra i pannelli, una bombetta nera galleggia, permettendo di indossarla riflettendosi in esso.
Un viaggio, in cui riscoprire un’umanità, la nostra, dimenticata, proprio specchiandosi in quest’uomo che sorprende. Capace di rispondere alla lettera scrittagli dal detenuto Karl-Franz Lembke, colui che aveva tradotto in tedesco e rappresentato in carcere, in Germania, il suo “Aspettando Godot”:

Mio caro detenuto.
Leggo e rileggo la sua lettera.
Godot è del’ 48 o del’ 49, non ricordo più. La mia ultima opera è del ’50. Questo per dirle che da molto tempo sono senza parole e mai mi è dispiaciuto quanto oggi, quando vorrei averne per lei. Ormai da tempo, più o meno informato sulla straordinaria storia di Lüttringhausen, immagino spesso colui che, rinchiuso nella sua gabbia, ha letto, tradotto e messo in scena la mia opera.
Quando si è commossi come lo sono ora, si coniano facilmente frasi (…?…) giacché non sono più lo stesso né potrò più essere lo stesso, dopo ciò che voi tutti avete fatto.
Che lei mi abbia confortato è l’unico conforto che io possa offrire a lei. Io che sono ciò che la gente definisce libero di andare e tornare, di mangiare a piacimento cibi gustosi e di fare l’amore, non ho la capacità di rivolgerle parole sagge. A ciò che la mia opera ha potuto darvi non trovo altro da aggiungere che l’immenso dono che mi avete fatto accettandola.
 

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