Tra spoken word, installazioni site-specific e performing art, il festival del Lemming ha concluso a Rovigo la sua XIX edizione col pianoforte introspettivo di Dustin O’Halloran
Uno sguardo acuminato sull’arte contemporanea. Opera Prima, festival rodigino diretto da Massimo Munaro e organizzato dal Teatro del Lemming, si conferma vetrina italiana tra le più interessanti dei linguaggi scenici nazionali e internazionali. In questo epilogo di primavera che è già estate, con temperature nel Polesine prossime ai trenta gradi, abbiamo assistito a eventi di musica e performance, di danza e teatro, capaci di esplorare il presente con consapevolezza, denunciandone anomalie e criticità.
Creatività refrattaria ai linguaggi omologanti. Il weekend che chiude il festival (18 e 19 giugno) si apre con l’esuberante “Dunajna”, coreografia di Roland Géczy ispirata al folclore ungherese.
Di questo quarto d’ora di danza frenetica che si ricollega alla tradizione – e ne fa l’abbrivo per scuotere la compassata piazza Vittorio Emanuele – la forza sta nell’ibridazione. A dialogare con Géczy, recando ciascuna la propria impronta artistica ed etnica, sono infatti lo slovacca Miriam Budzáková, la colombiana Debora Posada Sanchez e la portoghese Marlett Araújo. Una danza mitteleuropea, romanza e sudamericana. Un mix di folclore e innovazione che lascia agli spettatori il tempo della scelta: lanciarsi nel ballo o contemplare defilati. Liberando, in tutti i casi, una preziosa energia salvifica.
Esterno vespertino anche per il duo Cartocci Sonori. Che sul terrazzo dei Giardini due Torri posano lo sguardo della poesia performativa su Rovigo con lo spettacolo “RAP (Requiem al Poeta)”.
Incipit sagacemente shakespeariano. Due uomini incappucciati in felpa bianca, con in mano un teschio. Pouria Jashn Tirgan ed Emanuele Fantini, anche autori rispettivamente il primo della drammaturgia e della regia, l’altro delle musiche originali, spaziano con irriverenza tra rap, spoken word e spoken music. Il linguaggio è ritmato. L’andatura è forsennata. Queste controfigure dei becchini di Amleto elevano il loro requiem al mondo contemporaneo classista ed edonista, al capitalismo corrotto, al razzismo di Stato, all’ipocrisia elevata a sistema.
È il funerale al berlusconismo, che come uno zombie si rialza a ogni ferita. Con l’utilizzo avvolgente e frenetico di rime, assonanze e consonanze, sfruttando in modo cinestetico la musica, “RAP” è uno spettacolo ipercinetico. Le parole sono bombe al napalm sotto cui si infrange e s’incendia il perbenismo borghese. Il repertorio poetico, politico e sociale di questi rapper metropolitani capaci di poeticherie, spiazza e annichilisce anche il pubblico della Generazione Z, shakerato dentro una performance senza soluzione di colpi.
E a tal proposito, che dire dello spettacolo “Fictions” di Annabelle Dvir, in scena con Women of Sounds Ensemble al Teatro Studio? Al termine di questo baccanale scenico, siamo colpiti da due miracoli: il primo è che il parquet del quartier generale del Lemming sia ancora integro e senza ammaccature; il secondo è che restino intatte le ossa delle tre menadi in scena: con la stessa Dvir (coreografa israelo-georgiana, drammaturga, compositrice vocale e progettatrice della colonna sonora) anche le performer Layil Goren e Dana Naim – Hafouta.
Ma che cos’è “Fictions”? Chi pretendesse di dare una risposta, sarebbe addirittura più pazzo delle attrici in scena. Perché questo è “Fictions”: il ritmo del corpo che produce un impasto di suoni e colori, il rito del teatro che crea mulinelli di luce e performance. Questi corpi isterici, spiritati, posseduti, producono un’energia tellurica dirompente. “Fictions” è sangue e sudore. È epilessia e nevrosi. È eros, dolore e paradosso. È il rito del teatro tra allucinazione e magia.
Le attrici invasate partono da una patina di donne castigate (in contegnosi abiti quasi ottocenteschi, camicia bianca e gonna lunga nera) e la scorticano fino a svelare il caleidoscopico androgino latente. Del resto, il nome della coreografa contempla proprio la duplicità: Dvir, ossia D come Domina e Vir come Maschio in latino. L’anima selvatica di queste baccanti esplode in un mix pervasivo di realtà e finzione. La danza furiosa, unita al canto tribale, usa il corpo in modo autodistruttivo. Avremo contato forse un centinaio di capitomboli fragorosi in questo lavoro contusivo e contundente, violento e liberatorio, ad alto coefficiente di difficoltà.
Animalità creativa. Teatro da combattimento. Forte rischio per ossa e articolazioni. Un tuffo al cuore per le anime sensibili. Visione sconsigliata a un pubblico di ortopedici.
Est Motus in rebus. Il mix delirante di mitologia e poesia, di sangue e tenebre, lo ritroviamo anche in “Of the nightingale I envy the fate – dell’usignolo invidio la sorte” di Motus, ideazione e regia di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, con Stefania Tansini, premio Ubu 2022 come miglior attrice e performer Under 35.
Su una passerella sull’erba del giardino del Chiostro degli Olivetani, ha luogo un’opera site-specific, con il pubblico distribuito ai lati. Quella di Motus è una performance ermetica con focus sul personaggio di Cassandra. Le atmosfere dark sono potenziate dai suoni dal vivo di Casagrande e dagli ambienti sonori di Demetrio Cecchitelli. La drammaturgia di Nicolò, invece, abbozza parole centellinate, strozzate, silenti, introdotte dal suono di uno zimbello che zufola il verso di un usignolo.
Teatro visionario e camaleontico. Lavoro tendente al kitsch. Atmosfere cupe, dove le suggestioni contano più delle parole. Attraverso la protagonista, ci addentriamo in un mondo di solitudine ed esclusione. Nel suo abito trash confezionato da Boboutic questa Cassandra è una creatura ibrida, metà donna metà uccello. È sirena e arpia. È angelo e usignolo. Sul crinale tra paradiso e inferno, Cassandra è sacerdotessa, profetessa, ma anche una megera che si fa carne con la notte e con il fuoco. È schiava, aliena, adultera. È il prototipo di un eterno femminino tanto seducente quanto vulnerato.
La danza elegante e frenetica ci risucchia in un mulinello di luci e ombre che travalica lo spazio scenico, e trasborda in una quarta dimensione fatta di derive e naufragi, che ci allontanano dalla piatta quotidianità.
L’inferno non è solo un’invenzione dantesca, e resiste ai nostri giorni. In “Inferno Al-Jahim” la compagnia bellunese SlowMachine ci accompagna nelle viscere della terra. Che qui coincidono con i sotterranei dei Giardini due Torri. Lo spettacolo ideato e con la regia di Rajeev Badhan, con Ousmane Dembelé, Lucky Diakpombere, Rufus Omokaro, e i testi degli artisti appena citati insieme a Viola Castellano e la drammaturgia di Badhan, è una sorta di installazione performativa site-specific che ci introduce nelle carceri libiche, dove migliaia di prigionieri in arrivo dall’Africa subsahariana sono assembrati e torturati.
Terrificante storia di segregazioni e violenze, di ricatti e sfruttamento, che sfugge ai giornali e alle nostre coscienze intorpidite, inebetite, o semplicemente distanti, distratte, ignoranti. La prigione. L’assenza di luce. Una solitudine senza speranza e senza redenzione. Questi spazi angusti e tenebrosi accolgono figure militaresche, sgherri disposti all’obbedienza fino al crimine, mentre uno storytelling a metà tra installazione visiva e documentario richiama un presente di respingimenti e schiavitù.
“Al-Jahim” (in arabo “le pene dell’inferno”) è il dramma dei profughi, dell’immigrazione che non vediamo e che sfugge alla nostra cattiva coscienza. Performance immersiva per dieci spettatori. Viaggio nei lager contemporanei. Manca l’aria laggiù. Sartre aveva torto: l’inferno siamo noi.
C’è anche la prigione del proprio esistere, o dell’incapacità di vivere. Quella della generazione dei Millennials assume risvolti a volte drammatici, altre tragicomici. Un mix delle due cose è presente in “Still alive” di e con Caterina Marino, in scena al Teatro Studio. “Still alive”, come il titolo di due canzoni e di un film. Un senso d’inanità assai prossima alla depressione. Dalla coltre protettiva di un piumone a un ballo apocalittico, sulle immagini di un pianeta Terra sconquassato realizzate da Lorenzo Bruno, qui anche nei panni del “soccorritore scenico”. Attraversando le suggestioni suicide di Sylvia Plath e Cesare Pavese.
Monologo adolescenziale ed esistenzialista. Con quel tanto di crudezza e di retorica, anch’essa adolescenziale. Lo spettatore interroga la propria anima autolesionista. Lavoro che ha il merito di evocare un’epoca, e di raccontare un’emozione e una rassegnazione. Finale consolatorio, che eleva un’ode collettiva alla vita.
Di “Vertigine della lista”, performance di Sosta Palmizi e Qui e Ora residenza teatrale, avevamo parlato con prudente entusiasmo quando era solo in forma di studio. Tratto dall’omonimo libro di Umberto Eco, il lavoro ci aveva convinto per quel po’ di leggerezza e ironia, assurdo e poesia postmoderna che lo pervadevano.
Come anteprima di uno spettacolo finito che sta cercando la quadratura, ci pare che la vertigine debba ancora ricalibrare il baricentro: essa viaggia alla ricerca di profondità, con il rischio di perdere in freschezza e spontaneità. Resta il merito della compagnia di giocare al rialzo nella sperimentazione, in cerca di feedback e input che arrivano positivi da parte del pubblico, con qualche incertezza da parte nostra.
Chi mette tutti d’accordo è invece Dustin O’Halloran, pianista americano da qualche tempo di stanza in Islanda, che chiude il festival con il concerto “Silfur”. Accompagnato al violino da Margaret Hermant e al violoncello da Charlotte Danhier, ’Halloran esplora la prospettiva mutevole della musica attraverso il tempo e lo spazio. Il pianista indugia in uno stato di introspezione in sintonia con lo spirito di Opera Prima: indagandolo, comprendendolo, perfezionandolo, in vista di un rinnovato senso di sé.