Fabiana Iacozzilli all’India. “La classe” riporta Roma a teatro

La classe (photo: Valeria Tomasulo)
La classe (photo: Valeria Tomasulo)

Dieci mesi fa a Roma riapriva il Teatro India, poi richiudeva. Come tutti. Sembrano secoli che non si va a teatro, ma non c’è nemmeno il tempo per giocarsi l’incipit “Or volge l’anno”: dopo la seconda e la terza ondata torna ad aprire, ed è il 4 maggio.
La compagnia non è cospicua, perché a poter riprendere le attività a stagione quasi chiusa sono in pochi, con contingentamenti effettivi nella numerosità del pubblico, nel mezzo di un’incertezza che dura da mesi e con una serie di distinguo che escludono, ad esempio, le associazioni culturali. Solo chi ha potuto contare su finanziamenti ininterrotti ha reinnestato la marcia senza troppi strappi.

Il Teatro di Roma: se all’Argentina finalmente sfoga “La metamorfosi” kafkiana di Barberio Corsetti, prevista a inizio stagione, all’India la scelta cade su una produzione fortunata e già sperimentata, “La classe”, il premiato “docupuppet” di Fabiana Iacozzilli sull’infanzia sua e dei suoi compagni in una tetra scuola religiosa, nato nel 2018, premio Dante Cappelletti, nomination agli UBU, dove vince come miglior progetto sonoro (Hubert Westkemper) nel 2019 – e qui eravamo noi, ai tempi della sua circuitazione attraverso In-Box.

Probabilmente non si può aggiungere molto a quanto questo lavoro ha guadagnato di analisi puntuali e lodi del pubblico: è un gioiello di crudeltà, a volte risonante come l’eco di una voce che chiami aiuto in una stanza vuota; a volte sordo, vendicativo, come se fosse nostra – e in un certo senso lo è – la colpa di non aver saputo percepire il terrore di quella classe di scuola elementare, lasciata per cinque anni alla mercé di suor Lidia, maestra baffuta, terribile, terrorizzante, totalizzante.

Un po’ sofferente dell’ampiezza della sala sia per l’illuminazione ‘di scena’, gestita dal palco per mezzo di torce (di Raffaella Vitiello), sia nella tensione di quei silenzi del testo che in un ambiente più raccolto dovevano caricarsi di una tensione insopportabile, il lavoro è comunque inattaccabile dal punto di vista delle capacità comunicative.
Gli strumenti espressivi, saldati a forza, come il mot-valisedocupuppet“, hanno un’eterogeneità che li rafforza a vicenda: da un lato la ruvidezza epica di brevi interviste audio, discontinue anche nella qualità della registrazione, e di una breve confessione in prima persona di Iacozzilli, posizionata come acme, dall’altra l’illusorietà, in ambigua penombra, dei pupazzi.

Il documento restituisce come un balsamo persino il dark della narrazione; e i pupazzi, la disperata matericità degli oggetti che maneggiano (innocenti come i minuscoli quadernetti di scuola, o strazianti come le schegge di vetro che ringhiano sotto i piedini di legno) sono insostenibili, richiedono un movimento adulto verso il “fuori”, le voci degli ex bambini che si raccontano, che tentano di ricostruirsi al microfono.

Con l’acutezza di un implacabile ago da rammendo, Iacozzilli cuce quelle autobiografie estorte e un po’ sbiadite nella memoria dei protagonisti alla traduzione degli episodi nella lingua meravigliosa dei piccoli corpi meccanici, opera di Fiammetta Mandich, che cura anche le scene.

È l’infanzia il repertorio sul quale si strutturano le categorie della nostra vita, dicevano. È questo il ruolo principe di questo lavoro: l’introspezione (lo sguardo dentro), la ricerca delle tracce impresse nella nostra stessa storia, che si rifiuta di licenziare un assillo, di insabbiarlo. E la ricerca, come sempre nelle opere di poesia, prima o poi deve rivolgersi verso quel seme che l’infanzia ha nutrito, senza scivolare nel determinismo ma con il desiderio di trovare una consolazione impossibile anche rispetto a ciò che siamo diventati.
Una consolazione che ha il suo correlativo oggettivo nel commovente passo (chi sa resistere al tremolio di un pupazzo? ai suoi occhi brillanti quando inclina il capo? al sibilo triste di un fischietto un po’ sfiatato?) del «bambino handicappato», Antonio, preso di mira dalla suora e tenuto a debita distanza dai compagni, capace di guadagnarsi un solo abbraccio, quello del piccolo Spiderman gonfiabile che si srotola nella mani del performer, con un crepitio colloso. Sembra veramente di vedere un desiderio che prende forma.

È anche colpa nostra, si azzardava prima, se i bambini hanno preso le botte della maestra?
Senza il minimo accenno di retorica, probabilmente senza nemmeno volerlo, Iacozzilli ce lo fa sospettare. O, almeno, è colpa di quegli occhiali a fondo di bottiglia che ci capita di indossare, come suor Lidia, che dilatano gli occhi ma li rendono come senza sguardo.
In scena fino a domani.

La classe
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli | Cranpi
collaborazione alla drammaturgia Marta Meneghetti, Giada Parlanti, Emanuele Silvestri
performer Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti
scene e marionette Fiammetta Mandich
luci Raffaella Vitiello
suono Hubert Westkemper
un ringraziamento speciale ai compagni di classe
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello, Carrozzerie | n.o.t

durata: 56′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Teatro India, il 4 maggio 2021

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