Peter Brook e lo spazio vuoto del suo Flauto magico

Peter Brook - Un flauto magico|Peter Brook - Un flauto magico
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Peter Brook - Un flauto magico
Peter Brook – Un flauto magico (photo: piccoloteatro.org)

Da chi ha intitolato il suo testo-base “Lo spazio vuoto”, evidentemente non potevamo aspettarci “Un flauto magico” armato del classico sfoggio lirico di movimenti scenografici, sollevati da potenti macchine teatrali. Peter Brook ha infatti costretto a una drastica cura dimagrante il ‘singspiel’ in due atti, musicato da Wolfgang Amadeus Mozart e rappresentato per la prima volta a Vienna nel 1791, presentandolo per il pubblico di oggi, al Piccolo Teatro di Milano, in gran forma e per niente sciupato.

Proprio in quel volume, Brook si proponeva di “eliminare quasi tutto del teatro. Se il nostro linguaggio deve corrispondere alla nostra epoca, dobbiamo anche accettare che oggi la ruvidezza è più viva e la sacralità è più morta che in passato. Dobbiamo dimostrare che non vi saranno trucchi, aprire le nostre mani vuote e far vedere che nelle maniche davvero non nascondiamo nulla. Allora soltanto potremo iniziare”.

E difatti l’opera si apre con l’ingresso di William Nadylam, attore che, insieme a Abdou Ouologuem, rappresenta la parte esclusivamente teatrale di un cast composto da 15 cantanti lirici che si alternano nel corso delle repliche, fino al 19 marzo. Dreadlocks raccolti, sguardo scuro e carico, mai caricato, con l’innata scioltezza dei suoi muscoli africani, qui rivestiti di un lino chiarissimo, l’attore scivola leggero da un ruolo all’altro: dal serpente da cui sfugge Tamino nel primo atto, alle tre dame mandate dalla Regina della notte a consegnare a Tamino il flauto magico, e in seguito ai tre genietti che guideranno il principe e Papageno verso il tempio di Sarastro, dove è imprigionata Pamina.

Nel frattempo quasi non ci siamo accorti che manca niente meno che l’orchestra! L’intera orchestra classica, e cioè: due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, due trombe, timpani e violini, viole, violoncelli e così via.
Sul palco del Piccolo Teatro, solamente un pianoforte, in mano a Franck Krawczyk (e a Matan Porat da oggi al 19 marzo), illumina con delicatezza le capacità dei cantanti, e con rigore puntuale sottolinea i caratteri su cui si basa l’opera. È una cornice “da camera” con l’intimità del teatro; in primo piano la “formula lirica” sperimentata da Brook: 100 minuti senza intervallo, in cui parola e musica fanno un’unica espressione, completata, valorizzata e, se possibile, estesa dalle altre soluzioni sceniche, soprattutto scenografiche, che sono piccoli particolari ma sostanziali, come fossero diamanti estremamente luccicanti messi in una grande scatola scura.

Un esempio? Nei primi minuti si passa velocemente da una selva a un castello, ma sul palco rimane la stessa scena. Su un unico livello, piano, su una pavimentazione lucida e alcuno sfondo, un numero imprecisato di fusti cilindrici chiari e sottili vengono spostati all’occorrenza dagli interpreti e, rimanendo fermi nella nuova posizione grazie a un piedistallo, formano ora un fitto cannicciato, ora filari disordinati, rami sparsi, o ancora i due stipiti di un’ideale soglia. Sono canne di bambù, che rimandano sicuramente all’ambientazione esotica originale dell’opera mozartiana, ma forse non solo a quella. Le piante di bambù sono caratteristiche per la flessibilità che le rende ostinatamente solide, e non a caso, agli allievi judoka giapponesi viene insegnato di “flettersi all’urto come i bambù”. È una resistenza altrettanto tenace quella continuamente richiesta a Tamino: per liberare Pamina, per farla sua, per sconfiggere la Regina della notte… Eppure “flessibile” è la fibra di cui è fatto Tamino, la sua tempra: secondo le indicazioni mozartiane è un personaggio pacato e controllato, almeno rispetto a Papageno; allo stesso tempo però, nello schema tipico della fiaba, su cui è costruita la trama di quest’opera, Tamino è l’eroe-protagonista, cioè colui che trionfa dopo aver compiuto l’impresa.

Peter Brook - Un flauto magico
Peter Brook – Un flauto magico (photo: piccoloteatro.org)

Il Flauto magico, infatti, letto come fiaba, racconto massonico, elegia illuminista, su tutto rappresenta lo sviluppo di un ragazzo che, mettendo alla prova la sua fermezza, da acerbo e inconsapevole, diventa uomo, e Pamina è il traguardo dell’evoluzione: l’uomo ha riconosciuto l’altra sua metà e finalmente è completo.

Peter Brook mette in scena questo “nuovo ordine raggiunto” semplicemente con un mantello rosso, quello che Sarastro poggia delicatamente sulle spalle di Tamino e Pamina, abbracciati dopo aver superato le prove dell’attraversamento dell’acqua e del fuoco. Anche queste non sono esibite, semmai accennate da dialoghi ridotti al minimo, e raccontate da una teoria di luci firmata da Brook e Philippe Vialatte: il rosso che sin dall’inizio illumina le scene di amore, morte e di tutte le passioni irrazionali si alterna al blu denso di Tamino, che rappresenta la lucida ragione. Una distribuzione cromatica che rimane intatta sino alla fine, anche se, incredibilmente, al termine del secondo atto, la percezione di blu-ragione/rosso-cuore si ribalta: il passaggio dal blu al rosso è la conquista della luce, della saggezza di Tamino, è la Natura che vince sulla materia, e infatti, l’abisso in cui sprofondano, sconfitti, Astrifiammante e Monostatos è un pavimento blu elettrico.

Una soluzione tecnologica minimale e “moderna”, come appare l’interpretazione di Papageno, che cerca la sua “colombella” in platea, fa il cabaret con il pianista, mangia in scena, si scola a canna una bottiglia di prosecco, e inevitabilmente rutta.
Eppure forse proprio questo tipo è un tributo a Mozart e al teatro del suo tempo. Questo Papageno infatti riveste perfettamente i panni dell’Hanswurst viennese: in italiano, Gian Salsiccia è una maschera del teatro di fiera e delle farse carnevalesche del XVI secolo.

“E’ sempre il teatro popolare a salvare la situazione. È il Teatro Ruvido, fatto di sapore, sudore, rumore, odore che si avvale in realtà di un linguaggio molto sofisticato e stilizzato: il pubblico segue il filo della narrazione e non si rende conto che tutta una serie di convenzioni sono infrante, perché il teatro popolare, per natura, è contro l’autorità, la tradizione, la pompa, la pretenziosità. E’ il teatro del rumore e il teatro del rumore è il teatro dell’applauso”. E gli applausi finali confermano il potere de “Lo spazio vuoto”.

Un flauto magico
da Wolfgang Amadeus Mozart
regia: Peter Brook
luci: Philippe Vialatte
al pianoforte: Franck Krawczyk (dal 22 febbraio al 6 marzo), Matan Porat (dall’8 al 19 marzo)
con (in alternanza): Dima Bawab, Malia Bendi-Merad, Leila Benhamza, Luc Bertin-Hugault, Patrick Bolleire, Jean-Christophe Born, Raphaël Brémard, Thomas Dolié, Antonio Figueroa, Virgile Frannais, Betsabée Haas, Matthew Morris, Agnieszka Slawinska, Adrian Strooper, Jeanne Zaepffel attori William Nadylam, Abdou Ouologuem
durata: 1h 40′
applausi del pubblico: 6’ 30’’

Visto a Milano, Piccolo Teatro Strehler, il 2 marzo 2011

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